
Il primo libro è composto da cinque racconti che le costarono una condanna e un addio, per le accuse di fornire un’immagine distante e non vera della città. Venne disapprovata la sua mancanza d’indulgenza e biasimata la sua assenza di pietà e compassione. Fu considerato (1953) un libro contro Napoli che usciva dalla guerra a pezzi. (Tutto mi ha ricordato l’analoga reazione che ebbe l’intellighenzia messicana all’uscita del film Los olvidados di Buñuel). Ma non si tratta di un saggio, pertanto non vi si sostengono tesi, e il titolo, “Il mare non bagna Napoli”, rivela una volontà che non si soffermerà sulla forma apparente delle cose, rimane implicito che l’autrice indagherà il reale che non si vede o che non si vuole vedere. Nella prefazione su edizioni successive, senza rinnegare nulla, ammetterà di aver proiettato su Napoli la sua personale nevrosi originata dall’angoscia che le procura la realtà, quel meccanismo delle cose che sorgono nel tempo e dal tempo sono distrutte, vale a dire, la paura per la consapevolezza dell’illusorietà delle cose. Il Mare era solo uno schermo su cui si proiettatava il doloroso spaesamento, o male oscuro di vivere, della persona che aveva scritto il libro.
Il primo racconto, Un paio d’occhiali, s’incentra su un problema di vista. La protagonista è Eugenia, una bambina povera e “cecata”. Il suo difetto visivo incide sulla percezione della realtà che per lei risulta sfuocata e confusa. Quando indosserà gli occhiali, ciò che l’attornia, per quanto le risulta misero e abbruttito, le colpirà la testa facendola barcollare fino a stare male. È su questa base che si devono leggere tutti i racconti, composti con una scrittura che esige distanza, fatta di toni alti e sopra le righe, espedienti dell’autrice per riappropriarsi di una realtà altrimenti insopportabile.
“Una chiarezza dolorosa e sfuggente è il vero volto del mondo”. Questo diceva in una dichiarazione in cui rivelava la consapevolezza del proprio lavoro e anche l’inclinazione a identificarsi in esso. Esprimersi era per lei fortemente sentito, come se espressione e sopravvivenza fossero lo stesso problema, e la sua scrittura, misto di prosa e versi, procede nelle sue descrizioni meticolose.
“…Questa infanzia, non aveva d’infantile che gli anni. Pel resto, erano piccoli uomini e donne, già a conoscenza di tutto, il principio come la fine delle cose, già consunti dai vizi, dall’ozio, dalla miseria più insostenibile, malati nel corpo e stravolti nell’animo, con sorrisi corrotti o ebeti, furbi e desolati nello stesso tempo…” –La città involontaria. I Granili
“…La plebe dall’informe faccia riempiva questa strada meravigliosa e scendeva dai vicoli circostanti e s’affacciava a tutte le finestre, mischiandosi alla folla borghese, come un’acqua nera, fetida, scaturita da un buco nel suolo, correrebbe, ingrandendosi, su un terrazzo ornato di fiori. Della presenza di questa plebe, non v’era nessun segno sulle facce dei borghesi, eppure essa era una cosa terribile. Non è che vi fossero solo due o tre vecchie madri, di quelle che si grattano il capo, trascinando uno zoccolo, coi grandi occhi loschi, le mani strette al petto, fossero cinque o sei, ma erano almeno mille…. Se poi aveste voluto incontrare, per pregarlo di una commissione, o solo guardarlo in faccia, uno di quei ragazzetti fra i cinque e dieci anni, che commerciano in sorelle e tabacco con gli americani, quando la flotta USA è nel porto, sareste rimasto atterrito dalla loro quantità…. E come, al cospetto, appariva mirabile e strana la serenità dei borghesi! Io mi dissi che due cose dovevano essere accadute, molto tempo fa: o la plebe, aprendosi come una montagna, aveva vomitato questa gente più fina, che, allo stesso modo di una cosa naturale, non aveva occhi per l’altra cosa naturale; o questa categoria di uomini, per altro molto ristretta, aveva rinunciato, per salvarsi, a considerare come vivente, e facente parte di sé, la plebe…. Tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi. Commuoversi, era come addormentarsi sulla neve. Avvertita dal suo istinto più sottile, la borghesia non smetteva di sorridere, e urtata continuamente dalla plebe, dai suoi dolori sanguinosi, dalla sua follia, resisteva pazientemente… Per la borghesia vi era l’impossibilità di credere che l’uomo fosse altra cosa dalla natura, e dovesse accettare la natura in tutta la sua estensione…. Tollerato era l’uomo in questi paesi, dall’invadente natura, e salvo solo a patto di riconoscersi, come la lava, le onde, parte di essa. Da Portici a Cuma, questa terra era sparsa di vulcani, questa città circondata da vulcani, le isole, esse stesse antichi vulcani; e questa limpida e dolce bellezza di colline e di cielo, solo in apparenza era idilliaca e soave. Tutto, qui, sapeva di morte, tutto era profondamente corrotto e morto, e la paura, solo la paura, passeggiava nella folla da Posillipo a Chiaia”. –Il silenzio della ragione.
Gli indignati più sconvolti da questo libro, furono i suoi ex compagni di redazione della rivista “Sud”, la rivista fondata e chiusa entro due anni, dal 1945 al 1947, che puntava all’indipendenza culturale, a rianimare la città e a direzionarla verso una dimensione europea. Vissero questi racconti, le storie riferite, i loro nomi pubblicati, come un tradimento che, alcuni di loro, non le perdonarono mai. La severità che Ortese espresse in queste storie, appartiene al momento del suo disincanto, successivo a quello dell’illusione creata da “Sud”, e non è altro che l’applicazione della “poetica della cattiveria” che proprio in quella redazione aveva appreso.
“…Si voleva sapere e capire tutto di questa mostruosità che appariva Napoli. Si scopriva che c’era un popolo infelice perché malato e se ne cercavano le malattie, definendo i modi di tale infelicità. Smontando il mito dell’allegria, ravvisando nei suoi canti la desolazione e il lamento dell’uomo perduto, incapace di coordinare i pensieri, comandare i nervi, prendere viva parte alla storia dell’uomo anziché esserne continuamente umiliato e oppresso. Bisognava rimuovere dall’opinione pubblica il mito terribile del sentimento chiarendo le deformazioni cui esso aveva condotto l’odierna società partenopea. Ma, soprattutto al Prunas, proclamare l’indipendenza della cultura come indispensabile procurò accuse d’irresponsabilità e tra gli amici che avevano formato la redazione, ci fu chi manifestò scontentezza e per ragioni di sistemazione personale abbandonò la redazione che soffocata dai debiti finì col chiudere. La Capria tornò alla sua vita agiata, Ghirelli a Roma Grassi a Napoli trovarono ottimi impieghi nella stampa. Compagnone si sottopose a revisionare il suo e il nostro passato e vide in Napoli ciò che è, in noi, il contrario. Prese a elencare i difetti di tutti, insultando senza risparmiare nessuno. Denunciò una pazzia e una stupidità generale senza speranza; fine della ragione. Successe che a un tratto si passò all’impassibilità e quella che doveva essere un’ingiuria diventò noia e di conseguenza un’inutilità. Così la giovinezza passò insieme ai suoi furori ed egli si ritrovò impiegato alla radio. I bei marxisti di un tempo lo annoiavano, non aveva più gioia alcuna. Nello stesso tempo un disprezzo unito alla malinconia gli imponeva di amare Rea (Domenico) la voce più legittima di Napoli, che lo ricambiava per interesse…. Rea, nella sua casa borghese di cui era fiero, comprata coi soldi del premio….. –Il silenzio della ragione.
La continuità tematica e stilistica è evidente in Silenzio a Milano (1958). Stessa severità e fermezza in questo reportage di anime, in cui il Silenzio, è quello della Stazione Centrale e dei suoi abitanti notturni dopo una qualsiasi giornata appena conclusa, quando si è consumata la sua funzione di “porta del lavoro, estuario del sangue semplice”. Il Silenzio è quello dei ragazzi ospiti del riformatorio di Arese che non riescono a far ascoltare il proprio dolore e la propria solitudine. Il Silenzio è quello dei locali notturni, di serie A o B, accomunati dalla stessa malinconia, dall’identico sconforto esistenziale dei suoi frequentatori. Il Silenzio è quello degli Alberghi per famiglie, spazi di confinamento per chi ha perso tutto. Il Silenzio è quello del disoccupato respinto, perché non riesce ad adattarsi a diventare il pezzo di un ingranaggio considerato efficiente. Il Silenzio è quello dello “Sgombero” in cui la scoperta di un mondo che non sa che farsene dei valori e dei principi sgomenta e smarrisce.
Quello che Ortese decide di raccontare è frutto di scelte personali e parziali, ma lo descrive con capacità e bellezza uniche.
“…Secondo lei -disse il fotografo- ci sarebbe qualcosa che non va, una ingiusta distribuzione del sole” “Del sole, come di ogni altro bene” “E questo, prima, non era?” “Sempre, era. Ma c’è speranza, voglio dire” “Speranza di che?” “Di mutamento. C’era dolore” “E adesso non c’è?” “È privato, signore” “Per quanto so, tutti possono lamentarsi pubblicamente” “Anche il Cristo di una pinacoteca, si lamenta” “E con ciò? ” “È un dolore ammirato” “Non capisco?” “Signore, se io ho fame, in Italia, questo fa parte del paesaggio. Se io cammino per strade eccezionalmente chiuse, in Italia, desiderando il mare, se la mia stanza è soffocante, se i rumori mi uccidono, se, in una parola, io muoio, questo riguarda esclusivamente l’ente per la conservazione del patrimonio artistico. Il diritto, in Italia, mette di buonumore, se non è scortato dalla potenza economica, anzi, il solo vero diritto sta nella potenza economica. Allora, il pensiero si perde, le parole si ritirano confuse nella gola, e la pazzia rimane il modo più compito di esprimersi, per un galantuomo.”……”E questo, a Milano non era? ” “Non come ora, almeno “…..”Uomini e donne…senza parola, muti, docili; senza verde, luce, aria; trasformati in cemento, vetro, acciaio; trasformati in lucidatrici, frigidaires, essi che magari li desiderano. Senza parola, trasformati in cose; senza più braccia, mani, volti, ma ancora caldi, incrementano la civiltà industriale. Perché l’industria ha fame, deve crescere l’industria. Cos’è un uomo, mi dica, di fronte all’industria? Ecco il nostro Dio, ecco Chicago, Milano….”……..”Si entrava in questa città per essere trasformati in cose, in cifre, o respinti. Ci tornavano in mente le parole del pazzo sul dolore proibito, comunque illegittimo, sul dolore, cioè sull’essere umano, vietato; ci tornavano in mente gli scarsi, rarissimi colloqui avuti in questa città; il senso di vergogna di fronte al pensiero, al colloquio, che avevano tutti, come di un furto alla comunità, una mostruosa perdita di tempo. Ci domandavamo se qui, e soprattutto qui, in questo suo violento tentativo di farsi moderna, scavalcando gli abissi di una educazione e una economia pastorali, l’Italia non perdeva definitivamente il suo equilibrio, non entrava in crisi.” – Una notte nella stazione
“……Sono in una parola l’Ottocento e il Duemila, la Pianura Padana e New York… Un conflitto di tendenze, di stile, in una parola di costume, e di una cosa, anche, più profonda del costume -l’eccesso del sentimento e quello della ragione-. L’architettura delle Case Albergo ha il senso di una virgola in una frase convulsa. È un segno di congiunzione tra il tempo passato e il futuro, sta tra il buon senso e l’incubo, è una raccomandazione di solidarietà e di modestia, guasta da una pretesa di fantasia, irrigidita da una volontà di giurisdizione. Alata e squallida, ariosa e monotona. Nata per proteggere, opprime; per rassicurare, spaventa; per confortare, incupisce. Dice tutto il nostro tempo: l’intenzione di assistere l’uomo, e il disprezzo misterioso dell’uomo ……. Soli assolutamente quegli uomini, come monaci e monache di un incredibile monastero, come pesci rossi in una boccia di vetro, nuotano nella pulita e disperata atmosfera di quelle stanze.” – Le piramidi di Milano.
“……Un uomo poteva essere una “cosa”. Non ci aveva mai pensato. Forse per questo lui e Masa se ne stavano sempre silenziosi, perché lo sapevano, e anche il padre lo sapeva, prima di perdersi nell’acciaio, e tutti quelli che erano come loro, senza dirlo lo sapevano. Una cosa che va e viene, ed esegue sempre quell’atto. Può avere nelle vene un dolce sangue, e nelle orecchie suoni naturali di vento o delle piccole onde del mare, e le voci dei figli cari, ma appena oltrepassa la soglia della sua abitazione, ecco è una cosa: e un ingranaggio lo afferra, e lo porta avanti e indietro, su e giù, come una ruota, per venti, trent’anni, sotto un cielo plumbeo, in mezzo a montagne d’acciaio, a marine, fiumi, torrenti d’acciaio, che bollono ai suoi piedi. E poco alla volta, egli si dimentica il mare che fa sciuf-sciaf. Egli è già diventato acciaio, prima di morire. I suoi gomiti sono acciaio, i suoi vestiti acciaio, le sue lacrime acciaio. Egli suda gocce d’acciaio. E poi muore : e lo seppelliscono nell’acciaio. “E Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza”. Così dicevano i preti. ……Ma era un blocco d’acciaio Dio? O se n’era dimenticato di quelli. Forse, era un ricordo, Dio. Un ricordo della forza com’era al momento che nacque. Poi era diventata Produzione. Al principio era come un vento e rideva. Poi era diventata tecnica, produzione. Dovunque, nell’universo, tecnica e produzione. Nulla al di fuori della tecnica e della produzione. Eppure qualcosa c’era. …bisognava stare uniti tutti, operai e intellettuali, per risalire dai pozzi della tecnica fino alla vita umana…. Poco alla volta questa idea era diventata una forte, strana persuasione, e gli andava mutando la vita di dentro. Si sentiva più tranquillo, più forte, più buono…. Ed era, ogni giorno più, come un uomo che sieda sulla riva di un fiume, per pensare, e poco alla volta la canna gli sfugge di mano, perché immerso nella contemplazione della corrente, della luce e la vita della corrente. … Era cominciato con l’Ungheria, quando s’era scoperto che anche i russi erano come hitleriani o fascisti, adoperavano le armi per imporre le idee, o gli eserciti in luogo dei libri. Era stato un momento terribile, come svegliarsi e scoprire che la terra è diventata un’altra, durante la notte il mare ha ingoiato tutte le superfici abitate, e ora è un grigio, disperato silenzio. …-Forse ci siamo sbagliati- cominciò a dire un giorno -Forse la liberazione non esiste. Nessuno la vuole, del resto- … Una cosa che c’era sempre stata, nei Sanipoli, eterna come la fedeltà al lavoro: il rispetto di sé, degli altri. Il rispetto che era anche più grande dell’amore, perché l’amore nasceva dal desiderio e ritornava desiderio, desidero di sé, degli altri, e il desiderio portava l’ambizione, la sopraffazione. E mentre seppe questa cosa, che il rispetto era la cosa più grande che si poteva offrire agli uomini, seppe che anche lui e Masa e tutti gli uomini e le donne come lui e Masa, erano uomini e donne senza peso, senza patria, senza valore, perché conoscevano il rispetto.” –Lo sgombero.
Nel 1968 il programma televisivo Rotocalco, mandò in onda un’inchiesta del regista Gianni Serra intitolata I ragazzi di Arese. Il documentario era ispirato all’omonimo racconto di Ortese. Mostrava il grande casermone con il suo campo di calcio, la mensa, gli spazi di assistenza e di lavoro, ma soprattutto la profonda tristezza e l’infelicità di quei duecento ragazzi, orfani o comunque senza famiglia, abbandonati al loro destino di solitudine. Dopo la messa in onda, la Rai ricevette la protesta dei Salesiani gestori dell’istituto, i quali sostenevano che il centro diffamato era invece perfettamente efficiente e organizzato per aiutare tutti i suoi ragazzi. Pretesero e ottennero un altro servizio che andò in onda con altre interviste e altre risposte. Ancora una volta il lavoro di Ortese, ora in aggiunta a quello del regista Serra, viene biasimato e giudicato per la sua motivazione civile e non per quella letteraria. Una dannazione e un ostracismo, una deliberata condanna all’esclusione.