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Thomas Bernhard – Il soccombente

Ancora una narrazione di isolamento, infelicità, malattia, follia e morte. Ancora un autoritratto indiretto che si mescola con fatti storici, dettagli di fantasia, un subbuglio di emozioni, per dar vita a una storia basata sulla filosofia esistenziale. Formalmente assomiglia ad un brano musicale barocco, il cui tema principale è variato molte volte. La dichiarazione contenuta nelle prime pagine viene ripetuta continuamente, aggiungendo dettagli ogni volta diversi. I riferimenti al mondo della musica all’interno della produzione di Bernhard sono vari. La sua scrittura ha un carattere musicale, un preciso andamento ritmico che contempla la ripetizione, la variazione e la ripresa. L’uso della reiterazione di pensieri e parole è costitutiva delle sue opere, così come la sua vocazione a problematizzare l’esistenza e la tendenza disfattista e deprimente. La componente musicale è concepita per caratterizzare un’atmosfera che non può che esprimersi in modo frantumato, irrimediabilmente destinato alla rovina, alla follia, alla morte, come espressione di un nichilismo profondo.

Il testo è un lungo monologo di pensieri che si uniscono ai ricordi, rivolti agli incontri fatti in giovinezza o negli ultimi giorni. I livelli temporali e i fili narrativi si intrecciano in modo complesso. Proprio come la cadenza in un brano musicale, inserisce monotonamente, alla fine di molte frasi, “ha detto, penso”. I tre amici pianisti che si sono conosciuti al corso di perfezionamento di Horowitz, rappresentano le diverse sfaccettature della vocazione, che può nascere da una ribellione verso la famiglia d’origine avversa all’arte, o da un’opposizione alla pratica del profitto della ricca borghesia austriaca. Il soccombente è un saggio sul loro destino, sul destino del genio Glenn Gould, su quello dell’ambizioso fallito Wertheimer, su quello dell’ambizioso che si salva perché mette in pratica una strategia che può conciliarsi con la propria esistenza.

La genialità di Gould e il suo radicalismo pianistico ha un effetto paralizzante sugli altri due, sui quali s’innesca un processo di negazione di se stessi, di annichilimento del loro talento. Wertheimer, il soccombente, epiteto assegnatogli proprio da Gould, che in mancanza di Gould sarebbe diventato un eccellente virtuoso, aveva cominciato a pensare di rinunciare a tutto quando lo sentì suonare la prima volta le Variazioni Goldberg. Fu mortalmente colpito, distrutto, ma impiegò degli anni a decidere di smettere. Il narratore invece, dice di sé che non gli bastava appartenere alla schiera dei migliori, lui voleva essere il migliore in assoluto o nessuno, così cessò di suonare. “……mi sono stupito di Glenn, ho osservato con stupore il suo sviluppo, ogni volta che l’ho incontrato ero stupito e ho accolto con stupore quelle che sono state chiamate le sue interpretazioni. Io ho sempre avuto la possibilità di dare libero sfogo al mio stupore, di non permettere a niente e a nessuno di circoscrivere o limitare il mio stupore. Questa capacità Wertheimer non l’ha mai avuta…..Io ho sempre voluto essere me stesso, Wertheimer assai volentieri sarebbe stato Glenn Gould….per tutta la vita in uno stato di eterna disperazione voleva essere qualcun altro… non era capace di vedere se stesso come un essere unico al mondo….quest’ancora di salvezza non l’ha mai presa in considerazione….è sempre stato un emulatore, ha emulato tutti quelli che riteneva più dotati di lui….e così si è cacciato nella catastrofe.” Terminato il corso Gould torna in Canada, trasformando in una mostruosità il suo invasamento pianistico, suonando ogni giorno da otto a dieci ore, isolandosi dall’umanità che detestava, fuggendo l’uomo che era in lui, per tendere all’ideale folle di porsi come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway, finendone stritolato. Il narratore Bernhard fa morire di una morte romantica il genio: suonando le Variazioni Goldberg viene colto da un ictus. Wertheimer non ha sopportato la morte di Gould, si è vergognato di essere ancora in vita, e la consapevolezza di essere un perdente lo porta al suicidio. Ma prima, attraverso un processo di intristimento nel quale si invaghisce della sua stessa infelicità, smette di suonare e si dedica alle scienze dello spirito e a quella che considera un’arte deteriore, scrivere aforismi, con l’intenzione di produrre un’opera che si intitolerà Il soccombente….”arte tipica di quelli che intellettualmente hanno il fiato corto….si tratta dei filosofi di mezza tacca che scrivono per i comodini da notte delle infermiere…. si tratta di imbrogliare l’umanità intera con piccolissime trovate che mirano ad effetti grandiosi…se smettiamo di bere moriamo di sete, se smettiamo di mangiare moriamo di fame…A essere esatti, dei più grandi progetti filosofici quello che rimane a noi non è altro che un misero retrogusto aforistico….tutto si riduce in briciole…..Noi studiamo un’opera colossale, l’opera di Kant per esempio, e col passare del tempo essa si riduce alle piccole pensate di un filosofo della Prussia orientale chiamato Kant…di ciò che voleva essere un dettaglio colossale è rimasto un ridicolo dettaglio…Notte e giorno io sento il lamento dei grandi pensatori che sono stati rinchiusi nelle nostre librerie…è tutta gente che ha violato la natura, ma il delitto capitale lo hanno commesso contro lo spirito, è per questo che vengono puniti e da noi ficcati dentro le nostre librerie…dovunque si presenti lo spirito, subito viene impacchettato e ingabbiato..Alla fine ho trovato riparo nell’idea di diventare autore di aforismi….io dico una cosa e gli altri non comprendono, continuamente le cose vengono fraintese e fintanto che esistiamo, dai malintesi non riusciamo a tirarci fuori.” Il narratore, unico superstite, si prende l’occasione per dar sfogo alle sue riflessioni sul virtuosismo, sul dilettantismo, sulla possibilità di diventare un pianista di spicco e sull’alternativa che si è dato alla carriera mancata. Anche lui avvia un processo d’intristimento, regala il suo pianoforte a una ragazzina incapace che lo distruggerà, lascia l’Austria per la Spagna, si immerge nello studio della filosofia, in particolare Pascal che focalizza l’instabilità della condizione umana. Ma soprattutto si dedica alla stesura di un saggio proprio su Glenn Gould. Dopo vari tentativi, trova finalmente la chiave per fare chiarezza e poter scrivere su una personalità immensamente più grande e più degna di adorazione, rispetto a quella limitata e mitizzata dai più.

Le Variazioni Goldberg sono una composizione formata da 1 aria più 30 variazioni e 1 aria da capo. La Variazione 30 è un Quodlibet, un intreccio di due canzonette popolari. L’aria da capo finale non è veramente il riaffiorare dell’aria iniziale, suona diversa, è cambiata. Questa è la stessa struttura de Il soccombente. Si apre al suono delle Variazioni e il motivo principale raccontato è ripetuto e ripreso sempre in modo diverso. Il titolo della composizione è citato 32 volte nel romanzo. I due personaggi inseriti prima della fine, la locandiera e il boscaiolo, possono essere visti come gli equivalenti letterari delle due canzoni popolari che compaiono nel Quodlibet. Si conclude con l’ascolto del disco delle Variazioni.

Primo e ultimo fotogramma tratti da
Trentadue piccoli film su Glenn Gould regia di François Girard 1993.

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Thomas Bernhard – Il nipote di Wittgenstein

In una lettera indirizzata a Hilda Spiel nel marzo 1971, contrariamente a quanto promesso, Thomas Bernhard spiega di non poter scrivere qualcosa su Ludwig Wittgenstein e ammette la difficoltà di scrivere sul filosofo a lui più caro. In realtà questo voto di silenzio viene rispettato solo in parte, il nome di Ludwig Wittgenstein è abbastanza ricorrente nella sua opera, in forma di citazioni o di rimandi è una continua appropriazione. Di fatto Bernhard è piuttosto affascinato dalla sua vita eccentrica, dalla sua scelta non accademica e dalle tante stranezze che circondano la sua persona. Nella piece teatrale “Ritter Dene Woss” l’identificazione con Woss è evidente. Roithamer il protagonista del romanzo “Correzione” è sempre lui. In “Goethe muore” inventa che il grande scrittore chieda di poter incontrare il filosofo. Nel 1982 esce “Il nipote di Wittgenstein”. Paul Wittgenstein lo conobbe in casa di un’amica comune. Tutti e tre appassionati di musica, Paul ne aveva una conoscenza suprema. Possedeva una acuta capacita d’osservazione e una ricchezza intellettuale e spirituale inesauribile. Paul non parlava mai di Ludwig. Erano pazzi straordinari entrambi, lo zio famoso perché aveva messo nero su bianco la sua filosofia e non la sua pazzia, Paul perché non aveva reso pubblica la sua filosofia, ma messo in mostra la sua pazzia. …”Le ricchezze spirituali si accrescevano incessantemente e al tempo stesso la sua mente non riusciva più a star dietro al loro ingorgarsi nella mente e allora la mente esplode. Così è esplosa la mente di tutti quei pazzi filosofi la cui ricchezza spirituale si forma e sviluppa di continuo, con una velocità assai più grande di quella con cui riescono a gettarla fuori dalla finestra della loro mente.”

Nel 1967 Paul e Thomas finiscono entrambi ricoverati all’Altura Baumgartner, in due padiglioni distinti: nel padiglione Hermann per i tubercolotici Thomas Bernhard, nel padiglione Ludwig per i pazzi Paul Wittgenstein. Il libro parte da qui, ripercorrendo il loro rapporto, riporta l’immagine che Bernhard ha del suo amico.

Il libro è un unico capitolo composto da frasi incessanti, ripetitive e vorticose, il cui scopo è produrre straniamento nel lettore, distanziamento critico, ma nel contempo una complicità dovuta all’effetto comico che scaturisce dalla lettura dell’esagerata lunghezza. Le frasi sono attacchi aspri e parossistici, prima all’establishment medico, poi verso la società e certi individui in particolare, verso l’alta borghesia, il popolo, gli intellettuali, i gruppi di appartenenza, i colleghi servili, le autorità, lo stato e persino la natura. Thomas e Paul sono entrambi malati e la malattia, per le persone spirituali e attive, significa sì una compromissione del loro modo vivere, è un peso, ma anche un’opportunità, perché aumenta la comprensione del mondo. La spiritualità fornisce la capacità di vedere la società come patologica e le malattie sono usate come una fase critica di transizione verso una forma di esistenza qualitativamente superiore. I due si somigliano, non sono integrati nella normalità della società e si oppongono al loro ambiente. Il motivo per cui si sono ammalati è lo stesso: Paul è impazzito perché si è opposto a tutto, Thomas ha sviluppato la malattia polmonare per opporsi a tutto. Hanno anche gli stessi tic, camminano facendo attenzione a dove appoggiano i piedi senza calpestare le fessure di congiunzione tra una pietra e l’altra, oppure viaggiando e guardando fuori dal finestrino, non possono fare a meno di contare gli spazi tra le finestre delle case, o le finestre stesse. Amano le stesse cose, odiano le stesse cose. Si comprendono, si supportano a vicenda, si scambiano continue prove d’amicizia. Tuttavia Thomas è consapevole della pericolosità della follia e si sforza di tenerla a bada, perché intravede la solitudine e la morte quando diventa una costante.

Racconta che verso la fine della vita di Paul gli è mancato il coraggio di frequentarlo. La malattia aveva reso debole quel corpo e la prossimità della morte lo intimoriva, al punto da preferire i sensi di colpa piuttosto che rivolgergli la parola. Così non parteciperà neppure al suo funerale. Sarà per il rimpianto di non aver tenuto il discorso funebre, che Paul gli aveva chiesto, che scriverà questo libro.

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Thomas Bernhard – Un bambino

L’ultimo libro della pentalogia autobiografica è quello che si riferisce all’infanzia. Racconta la storia delle sue origini: le sue esperienze fino ai tredici anni, le storie di vita dei membri della sua famiglia, ci sono i suoi commenti riferiti ai sentimenti e alle sensazioni del se stesso raccontato. Tuttavia non è un’autobiografia tradizionale, nel senso che si tratta di qualcosa di più complesso, consiste in un misto di finzione e verità, di fatti esagerati, significa che ha un carattere artistico. L’intenzione letteraria è dunque quella di non raccontare la propria vita reale, di Thomas Bernhard, ma la vita in generale, o più precisamente, una concezione della vita. Questa biografia diventa un’invettiva contro l’ambiente ostile a cui è stato esposto questo bambino, un essere in crescita con una disperata sete di sopravvivenza, in un contesto senza speranza.

Thomas è un bambino intelligente, ostinato, non ama cedere. È un solitario, a scuola viene deriso e nei rapporti con gli altri, per vari motivi, si trova sempre in situazioni di svantaggio. Ama sua madre ma ha con lei un rapporto conflittuale, lei vede in lui l’uomo che l’ha abbandonata e per questo non è in grado di sopportarlo, lo teme e spesso lo punisce. Venera il nonno, pensatore e scrittore che non ha mai svolto un lavoro che possa produrre un reddito. Scrive libri che non riesce a pubblicare ma è il suo autentico maestro, andare dal nonno è per lui come recarsi alla Montagna Sacra. “Squarcia la cortina che gli altri si affaticano di continuo a tenere chiusa…..insieme a lui, del teatro non vedo soltanto la sala, ma anche la scena e tutto ciò che sta dietro la scena…lo spettacolo nella sua totalità.” ..”Mio nonno materno mi ha tirato fuori e con ciò stesso salvato dall’abbrutimento e dal sordido tanfo della tragedia di questo nostro mondo nel quale miliardi e miliardi di persone sono già morte per asfissia. Per tempo mi ha tirato fuori, e non senza un doloroso processo di correzione, dalla palude generale, estraendo per fortuna prima la testa e poi il resto. Per tempo ha richiamato la mia attenzione, e in effetti è stato l’unico a farlo, sul fatto che l’uomo ha una testa e su quello che ciò significa. Sulla necessità che si instauri il più precocemente possibile, oltre alla capacità di camminare, anche quella di pensare.”…… “Stavamo seduti uno accanto all’altro e il nostro accordo era perfetto. Fissare lo sguardo su qualcosa di grande, era questo il suo continuo ammonimento, su quel che c’è di più grande, sull’eccelso! Ma che cos’era l’eccelso? Se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo di essere circondati soltanto da ridicolaggine e meschinità. Quel che importa è sottrarsi a questa ridicolaggine e meschinità. Fissare lo sguardo sull’eccelso! Da allora in poi ho sempre avuto l’eccelso dinanzi ai miei occhi. Ma non sapevo che cos’era l’eccelso. E lui lo sapeva? Le mie passeggiate con lui altro non erano, per tutto il tempo, che storia naturale, filosofia, matematica, geometria, insomma un continuo insegnamento che colmava di felicità. È una vera iattura, diceva lui, che con tutto quello che sappiamo non riusciamo a procedere di un passo. La vita era una tragedia, e noi nella migliore delle ipotesi, potevamo trasformarla in commedia.” Sarà per lui una catastrofe prendere congedo dal nonno e dal suo paradiso quando dovrà passare sotto la tutela del marito di sua madre.

Molto presto si raffronta con la morte. Il suo migliore amico muore bambino di una malattia improvvisa. Il nonno parla spesso di suicidio e lui stesso manifesta più volte propositi suicidi. Desiste dal gettarsi in strada dall’abbaino, perché non gli garba l’immagine di ridursi a un mucchietto di carne verso la quale chiunque per strada avrebbe provato disgusto. Allora escogita un piano ….”con una corda da bucato ben legata alla trave maestra del tetto, con destrezza mi lasciai cadere infilandomi nel nodo scorsoio. La corda si ruppe e io precipitai al terzo piano.”

Sperimenta ben presto la bassezza dei suoi simili, le false sicurezze della famiglia, l’ipocrisia delle autorità, l’insensatezza della scuola, gli orrori del nazismo e della guerra. ….”Io non ero ancora membro del cosiddetto Jungvolk, un gradino preliminare della cosiddetta Hitlerjungend. Poco dopo lo divenni. Senza essere richiesto di un parere, un giorno fui tenuto a presentarmi, in una fila di ragazzini della mia stessa età, nel cortile della scuola media che si trovava proprio accanto alla prigione, al cospetto di un cosiddetto capomanipolo. I membri della Jungvolk erano vestiti con pantaloncini neri di velluto a coste e camicia bruna……Poiché pensava che un velluto a coste è sempre un velluto a coste, mia nonna mi fece confezionare dalla ditta Teufel sulla piazza principale, un paio di pantaloni di velluto, ma siccome il marrone le piaceva di più, non di velluto a coste nero ma di velluto a coste marrone. Quando io, unico tra i nuovi membri dello Jungvolk, mi presentai con un pantalone a coste marrone anziché nero com’era prescritto, il capomanipolo mi diede un ceffone e mi cacciò dal cortile della scuola media con l’ordine di comparire la prossima volta con un regolamentate pantalone di velluto a coste nero…. Trovavo lo Jungvolk ancora più tremendo della scuola. Ne ebbi ben presto abbastanza di cantare sempre le stesse stupide canzoni, di attraversare sempre le stesse strade a passo di marcia gridando a squarciagola. … Ero abituato a essere indipendente, a star solo la maggior parte del mio tempo, detestavo la truppa, aborrivo la massa…. La sola cosa che nello Jungvolk mi faceva un bell’effetto era una pellegrina marrone perfettamente impermeabile.”

Bernhard non smetterà mai, in tutta la sua opera, di deplorare e sbeffeggiare il mondo che lo circonda, di evidenziare l’ottusità delle masse e di condannare la decadenza pervasiva. È la ripetitività insistente della ribellione contro tutto la sua caratteristica principale. Ma qui, in mezzo a tutte le ingiurie contro l’umanità che scrive, c’è anche qualcosa di positivo, persino di felice. Nel mezzo di un idealismo vacillante e di speranze contrastate, c’è un desiderio positivo in questa narrativa reminiscente. Pare che l’attività letteraria che lo porta a occuparsi della sua vita passata e dei suoi pensieri di allora, diventi il mezzo/possibilità per superare, attraverso la conoscenza di sé, le esperienze dolorose dell’infanzia e la sua incapacità a vincerne il peso.