
Non sono solo le tematiche universali che ha trattato: amore, potere, gelosia, paura e morte a fare di Shakespeare un nostro contemporaneo, anche l’intuizione che in politica controllare la situazione è un sogno o un’illusione era una sua consapevolezza che ci appare oggi drammaticamente attuale.
Re Lear , Enrico VI, Riccardo III, Macbeth, Leonte, Giulio Cesare, Coriolano, hanno in comune il fatto di non vivere in tempi normali. Un fatto spaventoso, allora una carestia o una crisi per successione dinastica, oggi il crollo del mercato immobiliare o un risultato elettorale inaspettato, hanno per conseguenza la messa in luce della fragilità delle istituzioni e il disordine delle classi dirigenti che non sanno prevedere, figuriamoci affrontare. Questa è la condizione ideale per l’affermazione del demagogo.
Per Shakespeare i politicanti sono disonesti per natura, ogni parola che dicono è una menzogna, ciascuno di loro nutre la segreta speranza che la sua menzogna, e la sua soltanto, inganni gli altri. La politica è quasi esclusivamente una prerogativa dell’elite e gli individui alla base della piramide sociale nelle sue opere compaiono solo di tanto in tanto, per esempio quando York ( il duca tra i protagonisti della guerra delle due rose, pretendente al trono inglese durante il regno di Enrico VI ) scorge l’opportunità di stringere un’alleanza con le classi inferiori, infelici trascurate e ignoranti, la coglie al volo. Scopriamo così che i poveri ribollono di rabbia e la guerra di partito sfrutta cinicamente la guerra di classe. L’obiettivo è creare il caos che getta le basi per la presa di potere. Forse il populismo sembra una concessione agli indigenti ma in realtà, è una forma di sfruttamento cinico. Il leader non è interessato a migliorare il destino dei poveri anzi, nutre un vero disprezzo per le masse e per la democrazia eppure, quando la gente gli urla la sua approvazione li ringrazia e continua a pronunciare falsità. In tempi normali, quando una figura pubblica viene sorpresa a mentire, la sua reputazione ne risentirebbe ma questi non sono tempi normali. Se qualcuno dovesse sottolineare tutte le distorsioni grottesche, gli errori e le bugie, la folla si sfogherebbe sullo scettico e non sul demagogo. “La prima cosa da fare, uccidiamo gli avvocati”. Questa frase (sempre nell’Enrico VI) pronunciata da un seguace di Jack Cade, il leader dei contadini ribelli del Kent sollevati contro l’incapacità reale di governare contro il parlamento e l’aristocrazia, suscitava ilarità smorzando l’aggressività. Anche oggi le frasi che certi gruppi pronunciano contro tutti gli agenti dell’apparato sociale che costringe a onorare contratti, debiti e ad adempiere agli obblighi, non sono propriamente il permesso a trasgredire le regole quanto a volere che le qualità di responsabilità siano nei loro leader. Così si rinfocolano le passioni degli esclusi e dei disprezzati, dei tagliati fuori dall’economia. Shakespeare ha intuito un’altra cosa molto importante, benché la retorica del demagogo sia evidentemente ridicola e assurda, i suoi seguaci non si tireranno indietro perché l’elite politica tradizionale e gli eruditi considerano quel capo un imbecille. Il rancore e il risentimento entro il quale il demagogo può attingere è profondissimo e il disprezzo e il ridicolo con cui vengono ricoperti lui e i suoi seguaci non fa altro che intensificare questo rancore.
Riccardo III odia la legge e la viola perché lo intralcia e perché disprezza il bene pubblico. È prepotente, odia, disprezza, è irascibile, misogino, si diverte a vedere gli altri indietreggiare ma pur essendo pericoloso ha sostenitori che lo aiutano a raggiungere i suoi obiettivi. L’odio che suscita lo stimola rendendolo circospetto ma ben presto è questo che inizia a consumarlo e stremarlo, quelli come lui prima o poi vengono rovesciati. Riccardo III è tra i pochi drammi che descrive un rapporto madre-figlio e ritiene che i danni possono venire dall’impossibilità o dall’incapacità di una madre di amare il figlio. La rabbia rancorosa verso le donne e verso la natura che l’ha fatto orrendo gobbo e zoppo è un camuffamento della collera contro la madre. Shakespeare non s’illude che un modello compensativo (il potere come sostituito del piacere sessuale) possa spiegare appieno la psicologia di un tiranno, ma resta aggrappato alla convinzione che ci sia un rapporto significativo tra potere tirannico e vita sessuale frustrata. La scelleratezza di Riccardo è evidente a tutti da subito, allora com’è stato possibile che abbia conquistato il trono? Dipende da una fatale combinazione di reazioni differenti ma ugualmente autodistruttive da parte di coloro che lo circondano. Insieme, queste reazioni equivalgono al fallimento collettivo di un intero paese. Ci sono persone che si lasciano raggirare, i babbei che credono alle sue assurde promesse. Ci sono coloro che sono spaventati dalle minacce. Ci sono quelli che lo riconoscono come folle bugiardo ma hanno dimenticato quanto sia orrendo un tiranno e pensano di poter normalizzare ciò che non è normale. Ci sono quelli che hanno consapevolezza ma si convincono che ci saranno sempre abbastanza adulti nella stanza per garantire che le promesse vengano mantenute. Ci sono quelli che approfittano dell’ascesa per qualche vantaggio e saranno i primi ad andare a fondo. Ci sono quelli che eseguono gli ordini per restare fuori dai guai. Per il tiranno c’è poca soddisfazione, chi lo serve è di solito un farabutto egocentrico come lui e lui non è interessato alla lealtà sincera o al giudizio imparziale, piuttosto vuole lusinghe e obbedienza. Il dramma non incoraggia un’identificazione con il protagonista ma stimola una certa complicità nel pubblico, la complicità di coloro che traggono piacere per procura dallo sfogo dell’aggressività repressa, dall’espressione schietta dell’indicibile. Nel dramma la sua ascesa dipende da vari gradi di complicità da parte di coloro che lo circondano, a teatro siamo noi che assistiamo agli eventi a venire attratti verso una forma di collaborazione. Restiamo affascinati dal comportamento scandaloso, dalla sua indifferenza alle norme della correttezza, dalle sue menzogne che sembrano aver effetto benché nessuno ci creda. Riccardo ci invita a sperimentare cosa significhi soccombere a ciò che sappiamo essere ripugnante.
Macbeth, Leonte, le figlie di re Lear, il tiranno ha sempre nemici potenti, può ucciderne alcuni, altri piegarli alla sua volontà, però non può eliminarli tutti. Quelli che riescono ad uscire dalla linea di tiro del despota, che uniscono le forze con altri esiliati, tornano con un esercito d’invasione. Questa è la strategia fondamentale non solo in ambito letterario, si è rivelata utile per i combattenti della Resistenza. Shakespeare non pensava che i tiranni possano durare a lungo, una volta al potere si rivelano del tutto incompetenti. Non avendo alcuna lungimiranza, sono incapaci di assicurarsi un sostegno duraturo ed essendo crudeli e violenti, non riescono a soffocare l’opposizione. La solitudine la rabbia e la diffidenza, unite a un’eccessiva sicurezza di sé, accelerano la loro caduta. Shakespeare credeva che non si potesse contare sulle persone comuni come baluardo contro la tirannia, erano, pensava, troppo facili da manipolare, da intimidire, da corrompere. I suoi tirannicidi vengono per lo più dalla stessa elite. Con il servitore che intima “Fermate quella mano mio Signore” (nel re Lear), creò un personaggio che rappresenta l’essenza stessa della resistenza popolare ai tiranni. Quest’uomo si rifiuta di restare a guardare in silenzio, prende le parti della correttezza umana anche a costo della vita.
Le società si proteggono dai sociopatici, di solito riescono a isolarli e espellerli . In circostanze speciali, tuttavia, la protezione si rivela difficile, perché alcune delle qualità pericolose del tiranno possono tornare utili (Coriolano). Negli Stati civili ci aspettiamo che i leader abbiano raggiunto un livello minimo di autocontrollo adulto, ci auguriamo onestà, rispetto per gli altri e riguardo per le istituzioni. Qui ci troviamo di fronte al narcisismo, all’insicurezza, alla follia, un bambino cresciuto fuori dal controllo di un grande e che questi ha aiutato ad accentuare le sue qualità peggiori.
Shakespeare riflettè tutta la vita sui modi in cui le comunità si disintegrano. Dotato di una conoscenza misteriosamente accurata della natura umana, tratteggiò abilmente il tipo di individuo che emerge in tempi difficili per fare appello agli istinti più abbietti e per sfruttare le ansie più profonde dei suoi contemporanei. Una società divisa in fazioni agguerrite è, a suo giudizio, particolarmente vulnerabile al populismo fraudolento. Ci sono sempre istigatori che solleticano l’ambizione tirannica e agevolatori che, pur intuendo il pericolo, si illudono di tenere sotto controllo il tiranno e trarre profitto dal suo attacco alle istituzioni. Shakespeare pensava anche alle tribolazioni necessarie per sbarazzarsi di coloro che provocano simili sofferenze. Tuttavia nutriva anche qualche speranza. La migliore risiedeva nella pura e semplice imprevedibilità della vita collettiva, nel suo rifiuto di obbedire agli ordini di chicchessia. L’incalcolabile numero di fattori costantemente in gioco impedisce all’idealista o al tiranno di controllare gli eventi e di vedere il futuro. Come drammaturgo Shakespeare accettò questa imprevedibilità, scrisse drammi che ruotavano intorno a molteplici intrecci, che accostavano alla rinfusa re e contadini, che disattendevano le aspettative e cedevano il controllo dell’interpretazione ad attori e spettatori. Tutti avevano lo stesso diritto di farsi un’opinione. Una convinzione analoga della città che si salva per un soffio dalla tirannia è nel Coriolano, con un salvataggio dovuto a un guazzabuglio di cose: l’instabilità psicologica dell’autocrate, la capacità di persuasione di sua madre, la modesta libertà d’intervento concessa al popolo, il comportamento degli elettori e dei leader eletti. Shakespeare sapeva quanto poco ci vuole a diventare cinici per questi leader e perdere la speranza per gli uomini che si fidano di loro. Spesso i leader sono compromessi e corruttibili, spesso la moltitudine è stupida, facilmente condizionabile e lenta a capire dove veramente risiedono i suoi interessi. Tuttavia credeva che tiranni e tirapiedi prima o poi avrebbero fallito, abbattuti da uno spirito popolare di umanità che si poteva soffocare ma mai spegnere del tutto. La migliore possibilità di recuperare l’onestà collettiva era, riteneva, l’azione politica dei comuni cittadini. Non perse mai di vista le persone che si chiudevano in un silenzio tenace quando venivano esortate ad urlare il loro sostegno al tiranno, o il servo che cercava di impedire al perfido padrone di torturare un nemico, o il cittadino affamato che pretendeva giustizia economica. “Che cos’è la città, se non è il popolo” – Sicinio, atto terzo scena prima -Coriolano-.
