Letture

Alberto Arbasino – Grazie per le magnifiche rose

Reportage o diario scritto tra il 1959 e il 1965, raccoglie le sue testimonianze sugli spettacoli visti in giro per il mondo: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Grecia, Italia. Uno sguardo aggressivo, di chi si serve di una conoscenza autentica, privilegiata e snob, che diventa anche osservazione di culture, costumi e vizi costitutivi di una società. Oggi si rilegge come fosse uno scandaglio gettato nel passato, per verificare se siamo cambiati o rimasti identici, mentre l’originalità del suo pensiero critico è ancora attuale e insuperata. La scrittura è seduttiva, ricca di preziosi dettagli, descrizioni e digressioni, mai banale o superficiale. Annota quel che vede, pubblico incluso, per poi raffrontarlo con il “conosciuto” italiano, specie i divi noti e abituali che raramente ne escono bene. La maggior parte di quegli autori e attori sono scomparsi dalla memoria, sessant’anni sono una notevole distanza, ma è altrettanto vero che non occorre ricordare chi fosse Celeste Aida Zanchi per sbellicarsi a un inciso come «indimenticabile perché il capocomico Ruggeri le proibiva di mettere le iniziali C.A.Z. sui bauli»

Il primo spettacolo recensito è “Le ragazze bruciate verdi”, ispirato a un fatto di cronaca scabroso, l’omicidio di una giovane correlato a fatti di ragazze disagiate, prostituzione e ricconi a caccia d’emozioni. Se la censura ha ostacolato il realismo di questa drammaturgia, Arbasino arbasineggia. Il dramma riesce solo a procurargli un fou rire. È l’anticipazione del tono che userà da qui in poi. Il fou rire è la reazione che smaschera realtà banali e spesso di pessimo gusto, da irridere con gusto “camp”.

Negli Stati Uniti ci va per la stagione a Broadway. Tutto altamente lontano sia dalla cultura che dalla realtà nostrana ed europea. Le commedie gli appaiono scritte unicamente pensando ai soldi e lui non salva nessuno, né O’Neill né Williams né Miller. Solo il musical, la forma di spettacolo veramente americana, vitale, divertente, prodotto di collaborazione tra vari ingegni, come l’opera italiana dell’800.        

Su My Fair lady– “La morale del musical è che la differenza tra la vera signora e la donna di strada non sta nel modo di comportarsi e non è nemmeno questione di carattere, ma dipende da come viene trattata: vedi le nostre scrittrici.

Su A Raisin in the Sun– È una commedia scritta e interpretata da negri (all’epoca era un termine utilizzato senza provocare scandalo, senza essere ritenuto necessariamente offensivo pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black), con propositi di realismo ottimistico e sentimentale. Stesso teatro carico di umanità come da noi è caratteristico di Eduardo De Filippo: gioie e dispiaceri della famiglia, naturalismo, ironie sopra i patetismi. La casa è la stessa, i problemi sempre uguali, identiche le ragioni del riso, le commozioni, aspirazioni, delusioni e speranze. 

Su Shakespeare– Ha subito oltraggi sotto ogni forma pensabile, subito tagli, contaminazioni, trasformazioni, con insolenza e disistima,  dimostrando come si possono prendere confidenze sciocche e sconvenienti libertà con un grande poeta che “tanto non ne soffre perché ha le spalle larghe”. Come sostiene John Gielgud: “Gli attori cercano motivazioni e appena si inizia a provare, si prova a capire di cosa si tratta: se ci troviamo di fronte a un poeta e la commedia sia di idee e non d’azione, se è rivolta ad un pubblico di un periodo storico diverso dall’attuale. Con Shakespeare la storia può anche essere pazzesca, gli eroi sembrare assurdi, i giochi di parole arcaici o incomprensibili, quindi gli attori e i registi cercano di aggirare le difficoltà ricorrendo a trucchi: spiegazioni psicoanalitiche, meraviglie di scenografia, musiche, balletti ecc. Tutte perdite di tempo. Si è anche provato a far fare la regia a importanti professori di Oxford e Cambridge, per rimanere più vicini al testo. Non ha funzionato. Si è imparato molto sul senso del ritmo dei versi, ma gli attori chiedevano quello che dovevano fare, come muoversi e questi professori non lo sapevano. In conclusione, gli attori devono usare l’immaginazione, recitare la parte con un ritmo vero, con rispetto e comprensione, questo basta a fare venire fuori le intenzioni del poeta. Devono seguire il loro istinto musicale, questo è quello che vuole Shakespeare che ha scritto per una grande orchestra con esecutori al servizio del dramma.”

Sul Teatro Greco ad Atene- All’ombra del Partenone Euripide and C. in greco moderno, quindi non si può verificare quello che si è imparato nelle versioni al liceo, per più di due ore di fila senza intervallo. Spettacolo noioso che le guide buttano sul rito e sulla sacralità del raccoglimento, senza quindi concedere sollievo agli spettatori. Katina Paxinou è il nome più importante, il resto degli attori compresa la regia sono scadenti, le musiche inaccettabili. Una messa in scena per turisti incapaci di individuare strofe e antistrofe, stasimo e parados. È come se la tragedia non fosse un’imitazione della vita ma del giornale. La sua forza emotiva sta nelle parole, nella terribilità della poesia, non nei fatti e quindi l’incanto che c’era nel libro si perde e se ne va, sostituito da suggestioni transitorie.

Gli errori, le sciocchezze, le insensatezze e le false impostazioni si riflettono anche nelle descrizioni dei comportamenti e delle mise dei partecipanti alle riunioni mondane o ai contesti culturali.

Non disdegna il teatro contemporaneo, considera abili autori Pinter, Beckett, Genet. Ionesco e Wesker, ma non riesce a descriverlo se non sul piano della sorpresa. Mescola commenti colti con interpretazioni che rimandano alla letteratura, al cinema e al teatro di serie B e C.

Su Passage to India di Forster- È il libro di uno scrittore che rompe col passato, adottando un linguaggio “semplificato” per considerare la gente comune e la vita di tutti i giorni. Si definisce compiutamente all’altezza di un sistema morale che non crede agli eroi, ai leaders, ai milionari, al cristianesimo, all’autorità, all’ascetismo, all’intolleranza, alla presunzione intellettuale. Contro i farisei, i puritani, i pedanti, gli ipocriti, contro l’imperialismo.

Su Brecht- Amore e odio. Figlio del tedio. Ci sono cose straordinarie ma poi rimane nel mito, nell’allegoria, nell’apologo e così riesce sempre con uno dei suoi limiti più fastidiosi, questo raccontare favole astratte però tutte con il suo piccolo significato dentro, che però importa poco, e il pallino della propaganda sistematica. È propaganda l’Enrico V di Shakespeare come lo è Ognuno di Hofmansthal. Il nesso tra storia e analisi sociale alle volte stufa.

Sul Musical in Inghilterra– Se è quello americano importato e con una troupe di sostituti è oramai spompato e senza vita dopo un lungo sfruttamento in casa. Se si raffrontano ci si trova di fronte a ombre smunte e decolorate. Se è quello inglese allora si tratta di un’avventura picaresco- proletaria, sullo sfondo di qualche pittoresco mestiere della classe lavoratrice nella realtà industriale odierna, oppure il classico della letteratura patria del 700/800 buttato sul ridere. “Oliver” dall’Oliver Twist di Dickens è uno spettacolo di un pasolinismo vittoriano, melodioso e tinto di seppia….La cattiveria nei confronti del bambino viene messa in musica con verve così sincera che quando si vedono in fondo alla cantina gli orfanelli col piatto di stagno in mano, cantare in onore della loro zuppa in coro da Oklahoma, si ha la certezza che buona parte della platea sta provando una pâmoison perversa nel vedere i dodicenni tormentati in scena, e per di più cantando, coi violini e tutto.

Su Zeffirelli- Ha portato dentro due istituzioni venerabili e tarlate come il Covent Garden e l’Old Vic… piccanti manierismi italiani…Il successo è stato enorme anche perché è stato accorto da servirgli il suo vecchio spumante in bottiglie insolite, avvolte in meravigliosa cellophane con tutti i colorini eccitanti attraverso i quali ogni inglese adora rappresentarsi l’Italia e i suoi incanti.                                                                                Trova parole d’elogio per la messa in scena di Romeo e Giulietta dove ci sono scene dolcissime e l’interpretazione di Giulietta fatta da Judi Dench è straordinaria.

Parentesi sulle interpretazioni del testo Romeo e Giulietta- Come mai predomini la tendenza a rappresentare tutti i personaggi come diciassettenni fin troppo vitali, carichi di energie vocali e atletiche. Come li aveva immaginati Shakespeare? Con una certa precisione Shakespeare ha scritto per ciascuno dei versi squisiti, ha lasciato intendere che dovessero esprimersi con una notevole sofisticazione. Bisogna notare che oggi, invece, molti attori giovani sono più adatti a fare Tennessee Williams, cose in jeans, e se va bene, arrivano a Cechov. In quanto ai versi, non ne sono capaci. Allora, se invece lo fanno, bisogna accettare tutto quello che si vede: i versi più belli sputati via insieme a pezzi di mela.

Sul teatro a Berlino- Pullula di straordinari spettacoli operistici di Strauss e Schoenberg e poi, naturalmente, c’è anche Brecht. Dopo una lunga, serissima, esposizione sullo straniamento, si fa gioco delle scene che mette a confronto. Il grigio, il bruno e la tela da sacco, moralistici e austeri a Berlino, appena a Londra o a Roma, virano immediatamente nell’estetismo dell’arredamento giapponese e del divano svedese. Passano subito dalla zona del Rimprovero in tela di sacco, al carino della Rinascente: la stuoia, la rafia, la lampada, l’insalatiera disegnata dagli architetti. Dove più si stilizzano i fondali, più coincidono col paravento di Fornasetti, più si introduce il mobile usato più se ne compiace la Signora che ha acquistato la sua madia uguale nel cascinale della Camargue.

Sul teatro a Parigi- Un ambiente culturale superficialissimo ma piuttosto brillante e benissimo organizzato, comunque nulla che riesca a rimpiazzare i miti di ieri. Lo stesso vale per le mostre d’arte, sempre gli Impressionisti, Picasso, Matisse. Matisse verso la fine della sua vita non dipingeva più, però recuperava carte colorate che ritagliava nelle sue incantevoli forme, simili a mani, a semi, a foglie di fico, a fiori, a carte da gioco. Nei grandi fogli gialli, arancioni, celesti o verdini, colori semplici, creava l’equivalente grafico delle poesie di Valéry.                                                                        Quando una stagione è proprio a terra, un direttore di teatro francese è più fortunato dei suoi colleghi italiani, ha la possibilità di mettere mano ai classicissimi, tipo Dumas o Hugo, e l’effetto è comunque sicuro. I nostri riesumano Cin_ci_là.

Sul Luna-park- Si fa un abuso del luna-park: rientra nei film, nei balletti, nelle operette e sempre quando si descrive il momento di crisi. Al luna-park negli spettacoli francesi non ci si diverte mai. Si va per perdere l’amore, il lavoro, il tempo, i soldi, la memoria, il buon senso, qualche volta anche la vita. Unica cosa che non si perde sembra essere la voglia di tornarci e oramai ogni sceneggiatore non rinuncia allo strazio dell’anima.

Abbatte i miti, pochi ne rinfranca: La serena maestà di Edwige Feuillere – L’orrenda Piaf all’Opera ancora regge – Leo Ferrè vecchio anarchico autore ex clandestino oggi condivide gli interessi del patron dei dischi.

Su Le Folies Bergeres- Folla di anziani che sbavano sulla sfarzosa rivista.

Sul teatro a Vienna- Al Burgtheater un Enrico III con rispetto straordinario per il dramma. Recitazione adatta alla vastità della sala: aulica, epica, trattenuta, meno cantata che alla Comedie Francaise e superiore ai disinvolti d’Italia e d’Inghilterra. Il pubblico assomiglia alla regina Vittoria, ad Anna Pavlova e alla Duchessa di Windsor, c’è anche un Pio XI e un Manzoni.

Sul Festival di Spoleto- 1959: a un anno dalla sua inaugurazione quando c’era tutto da scoprire è già meno divertente. 1960: Festival casuale, spettacoli scelti come viene-viene. 1961: Ha rivelato cos’è, un inseguimento all’adolescenza sfuggita per sempre da parte di un gruppo di vecchi giovanotti.                               

Su Tennessee Williams- Un mondo crollato con questi fantasmi di zitelline appassite e di madri possessive, di fratelli sognatori e di giovani buoni che s’involano tra illusioni nate morte. Basta con questi delirio, le aspettative sognanti con i poveri piccoli oggetti fastidiosamente simbolici, i linguaggi grossolanamente sentimentali. Testi mal scritti per le interpretazioni più manierate.

Su La Connection di Gelber- Nuovo spettacolo, noioso, vitalissimo e affascinante. È l’America che è il rovescio del cowboy eroe e del businessman che si è fatto da solo o del giornalista idealista che combatte tutto solo la sua crociata contro il sindacato del vizio.

Su Salomè- Salomè è veramente una di quelle bambinacce medio-orientali nere e tracagnotte, mignotte, ingordissime, che s’annoiano sui rotocalchi in una reggia dove tutto è piccolo e stretto. Il suo ideale sono le Folies Bergère e allora, verso sera, si mette un negliges di paillettes che mostra tutto, gira inquieta tra le terrazze afose. Accorgendosi che dentro la cisterna, come un’anguria tenuta al fresco, c’è Jochanaan, lo esige, ma lui che non gradisce i passatempi venerei, preferisce star giù…. Questa ghiottoneria appartiene a un momento così preciso dell’Art Nouveaux, si può rappresentare in molti modi: togliere tutta la decorazione, buttandola sui giochi di luce da wagneriano dell’ultimo giorno. Oramai come nel film con Rita Hayworth, Salomè è buona, si fa cristiana e danza per salvare Jochanaan, davanti a Erode che ghigna. Oppure si può seguire alla lettera il libretto pescando qualcosa di opportuno per le scene nell’atelier di Gustave Moreau.

Su Stravinskij- Nell’autunno del 1961 dirige Cajkowskij al teatro Eliseo. Le braccia sventolano le palme con un’intensità così comunicativa che la musica diventa materialmente leggibile per virtù del gesto. Tre raffronti su tre intuizioni, su musica, letteratura e teatro. Mentre il grand’uomo fa le sue galoppatine nell’entusiasmo e di tanto in tanto con la mano volta i fogli, si sviluppano le ragioni dell’affetto: perché ha sempre preso il suo bene dove lo trovava, nelle civiltà passate e in quelle presenti, a oriente e occidente, aperto a tutto senza rifiutare nulla per pregiudizio, ma sempre critico nelle scelte. Come Proust è stato tra i primi a capire che nella nostra epoca si costruisce con materiali sintetici, inautentici, e l’unica via di salvezza può essere il pastiche in quanto atto creativo-critico d’invenzione indiretta. Come ha capito Brecht, qual è la fonte del ridicolo involontario sulle scene? L’immedesimazione, e qual è il suo rimedio più sensato? L’ironia critica, cioè quel distacco da insider-outsider.

Sulla Società- A Londra hanno tradizioni talmente solide, antiche e assimila-tutto da non aver paura che l’individualismo si sfreni e l’originalità slitti nella stravaganza. A Milano (alla Scala) la straordinaria omogeneità apparente di una classe sociale che nulla tiene insieme, si è formata appena ieri, ogni giorno si trasforma, non ha ricambio perché la gente o cade dal cielo o svanisce nel nulla. Gli occhi li punta, in mancanza d’altro, sul futuro. Ogni tanto pare diventare una vera società, basata sull’accettazione da parte di tutti dei presupposti della Comunità Civile Mondiale, invece non è mai vero.

Sul Teatro moderno inglese- Wesker è come Antonioni, emblematico, entrambi sostenuti dagli snob di sinistra.Con fiera spregiudicatezza portano in scena commedie che sono il campionario delle proteste contemporanee, con la pretesa di fare teatro e poesia. Rozza efficacia scenica, sostenuta da prediche ovvie. Sentimentalismo deamicisiano più intenzioni ridicole: quando si vede la Cultura considerata un talismano magico o addirittura betteriologico, come se bastasse qualche iniezione di streptomicina per guarire da un’ora all’altra dai mali gravi (o non fosse invece un rimedio misterioso che entra adagio, magari attraverso ferite inferte dalla vita, e agisce lentamente, generando invece anticorpi se ne viene somministrata troppa in una volta sola). Il pregiudizio di Wesker è che tutti i mali della società contemporanea derivino dalla cultura di massa adulterata e velenosa, e che l’unica salvezza consista nel ritorno alle radici, alla vecchia e sana arte popolare di ispirazione folkloristica e regionale. Come sostituire “Una zebra a pois” con “La Marianna la va in campagna” per ottenere effetti paragonabili al rinsavimento dell’Enrico IV di Pirandello. La sua è una ingenua e banale illuminazione, trattare gli avvenimenti intensamente drammatici come se non esistesse la franchigia o la libera uscita come sfogo per l’accumularsi delle emozioni.                                                       Comunque in teatro a Londra fanno di continuo ottimi spettacoli. La tradizione da Shakespeare a Shaw passando per Wilde è fortissima. Tutto ricomincia con Osborne che butta giù tutto con una gran spallata, aprendo a Pinter, Beckett e a una straordinaria varietà di temi e direzioni che comprendono Shaffer, Arden, Wesker. I critici inglesi hanno avuto un ruolo importante sin dall’inizio di questa nuova fase.                                                              

Mentre i critici inglesi dimostrano ironia, competenza e soprattutto libertà di giudizio, da noi, poiché critici e teatro sono una cerchia ristretta, si conoscono tutti, diventa imbarazzante scrivere quello che si pensa. Specializzazione malintesa, giusto il contrario di quel che si richiede: competenza scientifica, d’essere guida e sostegno, che non ci si limiti alla cronaca. Spesso il critico teatrale, musicale, cinematografico, ha solo conoscenza di un’infinità di precedenti irrilevanti, quindi è incapace di comunicare con il pubblico colto, gli manca il gusto filologico, gli strumenti stilistici, l’alacrità intellettuale, l’eleganza concettuale, la ricchezza di spunti e la dispettosità sporcaccionesca. Anziché soggettivismo senza motivazione (il linguaggio è povero- le situazioni sono ordinare- mai un bel panorama) serve chiedersi il senso delle cose.

Su Beckett- Un vero maestro nel trasformare la caduta in trionfo. Davanti a noi i personaggi cascano o giacciono o rotolano o strisciano o stanno immobili, paralizzati o senza gambe. Ma intanto che mosaici torvamente ironici, che metafore vigliaccamente tragiche, che cornucopie da bons mots accademici e sediziosi. Attraverso le ostentate riduzioni della vita e delle parole al nulla, o al poco, il vero successo di questo razionalista barocco travestito da stoico protervo consiste nell’andare avanti senza rete: dimostrando che il dramma può raggiungere le stesse rigorose proliferazioni dell’Ulisse di Joyce senza bisogno di oggetti, operando solo con le leggi del pensiero. E rispetto a Proust la Realtà e la Durata si rivolge fuori dal tempo, persino facendo a meno della memoria involontaria perché l’IO di Beckett è un essere atemporale che cerca di fuggire alla prigionia dello spazio e del tempo. Fuori c’è il nulla. Lui stesso è già il Nulla.

Su Osborne- Il più bravo di tutti. Scrive superbamente, come ai bei tempi della rettorica, con un uso saporoso e pungente del parlato. È un magnifico autore di tirate memorabili che non di concentrati costruiti rispettando le regole. Mentre i più furbi mestieranti sbrodolano facilonerie tipo “il dolore del mondo” “prendiamo la nostra vita fra le braccia” che passano tranquille nelle traduzioni, senza significato. Osborne non chiacchiera su ansie metafisiche, parla di cose concrete, riferibili a tutti, così sconvolge e turba un’intera generazione di coetanei trentenni inglesi che si riconoscono nelle sue invettive e delusioni. Il pericolo è che la risonanza è locale e rimane difficilmente esportabile con altrettanta efficacia.

Su Pinter- Le commedie di Pinter sono tutte uguali come i concerti di Vivaldi, i quadri di Morandi, le imprese di James Bond. Sempre delirante, con estremo rigore in stanzacce abitate da famiglie spaventose dove le donne sono assenti o morte, alcuni sciagurati si affrontano con feroci zampate in un dialogo superbo.

Gli Stati Uniti non hanno mai avuto una vera drammaturgia così come non sono mai riusciti a creare un vero e proprio formaggio. In uno spettacolo più delle luci, dei movimenti e degli effetti conta il testo.                                        Persino O’Neill non ha scampo. Divora Eschilo, Strindberg, Shakespeare, Hugo e Freud senza assimilarli né digerirli, li sputa fuori in una broda mal scritta. L’intento di “Strano interludio” è quello di moltiplicare profondità e molteplicità della poesia su più piani di rappresentazione, eccedere nelle ricordanze, memorie, schiarimenti, provocando rozzezza e una fantasia di luoghi comuni.                                Il Cabaret americano è oggi (1963) il più vivo ed eccitante del mondo. Mike Nichols e Lenny Bruce fanno dell’improvvisazione estremamente libera. Sono aspri, usano efferati dileggi contro tutti i tabù, d’altra parte in Usa il reato di vilipendio è sconosciuto.

Sul Teatro dell’Assurdo- Senso d’angoscia metafisica per l’assurdità della condizione umana, in un mondo che ha perso i suoi significati tradizionali e fa smorfie malvage e incomprensibili. A un regista che ha poco da dire risulta fastidioso sforzarsi di specificare se un personaggio piange perché è morta la mamma. Se invece piange davanti a un paracarro, questo può passare per poesia. Tutto un attribuire intenzioni, vuol dire quello? No vuole dire questo.

Sul Teatro della Crudeltà- Artaud fa le medesime analisi del mondo di Brecht. Sistemi politici ed economici e sociali basati sull’ingiustizia, avidità, sfruttamento, aggressione. L’individuo tra quelle forze ne esce impoverito, frustrato e disperato. Per Brecht questo sistema avvilisce e corrompe l’individuo che è rotella di questo ingranaggio. Il suo testo mira con fredda fermezza didattica a stimolare alla critica e invogliarti all’azione. Per Artaud il teatro deve fornire un surrogato all’azione incitando lo scatenamento delle tensioni interne dello spettatore. Brecht cerca il distacco tra attori e spettatori, tutti coinvolti nell’esperimento della vita che si svolge sul palco. In Artaud, per soddisfare lo stesso ordine di desideri inconsci che tutti inseguiamo attraverso l’amore, il delitto, le droghe, la guerra. Sembra l’anticipazione teorica dell’happening. Il Teatro della Crudeltà significa in sostanza, un certo rigore formale di espressione connesso con un certo tipo di esperienza che può produrre un risultato più vero. Per esempio, provare a trasformare l’impulso in suono o gesto, grido o salto. Come nell’Action Painting. È abbastanza ironico che le massime più intense e profonde sul teatro moderno siano state pronunciate, come in Shakespeare, da un fool. Ma è chiaro che oggi la concezione teatrale più geniale è la sua, quella che esalta un evento teatrale totale, una forma a molti livelli che coinvolge attori e pubblico, mescolando naturalismo, Nō, cabaret, cerimonia, fantascienza, metafisica. Può succedere che un dramma simbolista come “I Paraventi” di Genet, risulti più epico di “Madre Coraggio”, trascinando il pubblico nello scatenamento delle passioni umane il più possibile equivalente ai risultati dell’unico precedente che si conosca, il teatro elisabettiano (tenendo conto delle epoche). Cominciare ad aprire un dramma, ribaltarlo, ridistribuendo i materiali surrealisticamente aiutandosi con il Dada e l’Assurdo per liberarlo dalla tecnica narrativa tradizionale per vedere se non finirà per esprimere più autenticamente il suo senso.

Sul film 8e1/2 di Fellini- Un’opera che bada al presente e tenta di aprirsi in qualche modo al futuro ancorché sgangherata e baraccona è per definizione migliore dell’opera che si reclina al suo passato, rifiuta rischi e incognite, si adagia sul sicuro solco tracciato da altri coi contenuti più rassicuranti. Mentre La Dolce Vita era la resa fenomenologica del mondo esterno al regista, un occhio avidamente spalancato sulla realtà per annettersi tantissimi fatti, 8e1/2 è il rovescio, un torrente di immagini di fantasia. Modifica la realtà, cancella alcuni fatti, altri ne mette in dubbio. Fellini con il suo surrealismo dà un graffio alla storia letteraria e questi film diventano episodi nella Storia della Forma Romanzesca. Già La Dolce Vita con la sua struttura a blocchi indicava una “struttura significativa” sia per il cinema che per la letteratura. 8e1/2 dà una botta in direzione dello sperimentalismo. Come riguarda oggi la realtà? Con un’opera aperta a tutte le direzioni, disposta a tutti i significati possibili, ammettendo tutti gli opposti.

Sul film Il Gattopardo di Visconti- L’Italia ha finalmente una sua destra dignitosa e presentabile, coerente di idee, gusto, non fascista, non analfabeta, fine e ricca. Il suo regno è il tempo perduto. La sua ideologia lo Status Quo fermo. La sua arma la nostalgia. Il suo manifesto ideologico è “Il Gattopardo”. (Non diverso da una biografia romanzata del generale Franco). Lo approvano tutti persino il PCI. Il film è la passiva illustrazione del libro. Vecchi chic e belli da vedere in una lunga inquadratura decorativamente incantevole e di straordinaria lentezza. Passando da un ambiente all’altro, indugiando su quadri operistici, finisce per posarsi su un personaggio che pronuncia una frase che non porta avanti nulla. Trattandosi di un’elegia dell’immobilismo. Oggi nessuno deve sentirsi innocente a rappresentare senza mediazioni temi come le lotte risorgimentali. Né serve gravare sul Gran Ballo un’infinità di significati di dissoluzione storica, psicologica e sociale che le immagini non reggono, dato che le diverse inquadrature si potrebbero accorciare o spostare, senza che il risultato o significato cambi. Così l’interpretazione critica è affidata a una sola battuta: “In Sicilia tutto dovrà cambiare perché tutto rimanga come prima”. Come nel libro esistono momenti poetici di grande fascino, lo stesso succede nel film, ma come ha detto Marx nella “Critica alla filosofia della Destra di Hegel” la bellezza visiva è l’opposto della coscienza critica.[ahahaha].                                                            Questa è la cosa più sconcertante in un regista come Visconti abituato alla deformazione sistematica di autori ben più importanti di Lampedusa. Questa totale assenza di critica, viene da domandarsi il senso di questa opera d’arte applicata, così poco autonoma, così priva di ragioni proprie. L’unità del film è assicurata dal sentimento di identificazione nel principe di Salina, nel suo rimpianto, nella sua nostalgia per l’Ancien Regime. Sentimenti, fatti emotivi che nulla hanno a che fare con la critica.

Oggi non se ne può più delle contaminazioni e delle trasposizioni, operazioni pseudoculturali. Al tempo stesso bisogna stare attenti anche alla ricostruzione precisa e accurata. La storicizzazione esasperata e la trasposizione sono due aspetti della stessa tendenza, al predominio arbitrario del Fatto Visivo ai danni della Parola. La maschera tutta visiva del “cerebrum non habet”.

Visconti è un gran bravo antiquario barocco decadente con l’aggiornamento rapido in materia di tematiche e di copioni per tutta una nostra modesta società provinciale. Con la seduzione audiovisiva ha trovato la soluzione: gustare l’estetismo rinascimentale più dannunziano e inebriante e allo stesso tempo salvare l’anima e la faccia davanti alla Sinistra e al Progresso. Confortato dai magnifici risultati visuali di film quali “Senso” e di parecchie regie operistiche alla Scala, importando in Italia Stanislawskij e Kazan molto abilmente coincidenti con certi moods del dopoguerra e le cattivanti fantasie di Miller e Williams, ha fatto coincidere destra e sinistra. Il tutto sostenuto da una critica paesana, prontissima a pronarsi davanti al successo. Poco importa se il testo dalle altre parti, le nazioni civili, s’incamminasse per tutt’altre strade allontanandosi da questo totalitarismo monumentale. Per questo lo studio della regia teatrale italiana negli anni recenti si identifica negli esuli scampati alla matrice viscontea.

Sul film Splendore nell’erba- La pubblicità diceva “film che scandalizzerà per l’intrepido coraggio del regista Elia Kazan nel trattare la scottante materia”. Tre ore di film che si possono riassumere così:”Cara contessa Clara, lei crede che io faccia bene a concedere ogni cosa al mio ragazzo quando me la chiede tutti i sabati sera, oppure sarà meglio soccombere alla malattia mentale e partire per il manicomio una volta per tutte?” In un Kansas del 1928 abitato da deficienti totali, Inge ambienta questo mélo fumettone e quando non riesce a venirne fuori provoca una serie di schizofrenie di quelle che travolgono regioni intere, paragonabile per vastità e conseguenze alla Peste dei Promessi Sposi. Kazan gli tiene mano con una rozzezza gigantesca: una quantità di effettacci, ostentazioni, stravaganze. Tutto talmente fuori dal tempo dalla cultura e dalla realtà, con aspirazioni al realismo e indecise allusioni all’espressionismo mai visti. Per contro con “Divorzio all’italiana” Germi può andarci giù pesante, calcare la mano sugli elementi più convenzionali del feuilleton e della farsaccia, però l’Intenzione e la scelta critica si vedono eccome. Quella materia richiedeva quel trattamento, il laido e il sozzo. Con Kazan succede il contrario perché la sua presunzione lo conduce alla banalità e alla parodia del dramma freudiano anni ’40 sui tristi effetti di una castità iperbolica.

Sull’opera Mahagonny data alla Piccola Scala- Sarebbe da trattare come un fatto di costume e non come uno spettacolo, sembra che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema quando un’opera come questa nata per il teatro popolare, viene prodotta attraverso gestazioni titaniche ed estenuazioni snobistiche.       

La differenza tra Strehler e Bene è la stessa che c’è tra Brecht e Artaud. Il guaio è che la nostra situazione teatrale rende irrealizzabile l’ideale del Teatro della Crudeltà. I dileggi del pubblico fanno pensare a quali irrisioni una platea veneta avrebbe potuto lanciare a un’ipotetica rappresentazione di Brecht data dal teatrino di Ca’ Foscari subito dopo la guerra. Non importa se qualche crudezza fa senso, grossa soddisfazione che, con un teatro maggiore tutto intento a rappresentare col suo realismo tutto carino una irrealtà che esiste solo nella Favola, trovi la forza di esistere un Off di questa natura indignata e protestataria.                                       Un consiglio: Carmelo Bene, butta via la voce impostata che è il ridicolo emblema dell’Accademia.

Sulla coreografia del Bolero realizzata da Bejart- Completamente grottesco, perché per realizzare compiutamente l’intenzione coreografica, la donna sola al centro e cinquanta giovani intorno a lei a cerchio, concupiscenti, ci volevano almeno dei ballerini americani con il fisico da giocatori di baseball o pompieri con l’idea fissa in testa del casino, invece di questi ballerinetti guizzanti da Folies Bergère che si possono solo immaginare con il phon in mano.

Su Strauss e Hofmansthal- C’è una lucida consapevolezza critica che viene fuori dal loro carteggio dove ogni effetto è discusso e previsto, bilanciando Poesia e Ruffianeria. Meandri della nascita dell’opera d’arte, come questo contemperarsi di un meraviglioso libretto con una partitura sublime, per formare un finissimo Tutto risultante da scaltrissime scelte. Non lasciando nulla al caso, affrontavano i più delicati problemi di tecnica teatrale e di resa artistica.

L’inventore dell’espressione “La casalinga di Voghera” ne ha coniata anche un’altra meno nota ma assai efficace per rappresentare un altro stereotipo. La scema di Ravenna- I film di Antonioni sono passati dall’essere un fatto culturale a un fatto sociale. Si è visto che la caricatura di un prodotto culturale più sbraga nell’insensato e nel grottesco, più si trasforma in un talismano di status, ciò assume le caratteristiche di un oggetto di prestigio. Nel nostro paese di mandarini e parvenus, i talismani che conferiscono maggior prestigio sono quelli provvisti di due caratteristiche principali: la noiosità e il falso problema. Così in un paese dove Pasolini illustra che per tre quarti le sue condizioni sono d’arretratezza, Antonioni va alla ricerca di quelle poche isole di civiltà del futuro e vi colloca, presentandoli come tipici, inevitabili disturbi semi inventati e che comunque è difficile farsi venire. La psittacosi. La Scema di Deserto rosso è predisposta alla malattia. Ma non dovrebbe lamentarsi se a furia di costeggiare ciminiere le vengono gli attacchi penosi e tristi. Sarebbe come se un allergico dopo aver corso per prati nella stagione dei pollini si lamentasse. Se soffre, la Scema, tanto più che le cause del suo male ci vengono presentate in modo sempliciotto, visto che abita a Ravenna, prenda un altro giro per le sue passeggiate, dalle parti di Galla Placidia o a Sant’Appollinare in Classe, e vedrà come le passa il suo disturbo. Sono ragionamenti terra terra? Certamente. In realtà il modello della trama sembra “Il malato immaginario” tra finzioni, imbrogli, sciocchezze e millanterie, vana solo la natura del clistere somministrato al paziente. La Scema ha manifestazioni esteriori di tormento interiore che appartengono ad ogni prima donna eccentrica degli anni ’90 (dell’800). Il trompe-l’oeil registico consiste nell’averle inquadrate in una cifra visiva che suggerisce invece modernità. La vera trappola del film sono le belle fotografie. Tutti diranno ” visivamente” “figurativamente”, ecco la trovata, l’aver girato sul pessimistico la pubblicità contemporanea.           “Deserto rosso” è un prodotto di livello medio che mediante stravaganze, pretende di passare per prodotto alto, come certo accademismo rispetto alla Cultura Alta. È un prodotto kitsch per elite che divulga non temi nuovi ma adulterati, svuotati della loro forza e messi a livello di un pubblico pigro ma pretenzioso che s’illude di raggiungere valori culturali originali. Accoppiare i cliches intellettuali ricavati da un’applicazione commerciale delle “scoperte” di alcuni pensatori seri, con l’esibizione sistematica di “misteriosità” ridicole, sia di perticolari esotici per sollecitare lo spettatore a tutti i livelli.

Su Guerra e Pace di Prokofiev- Una splendida musica intelligente con meravigliosi cori epici, incantevoli valzer, trepide cabalette, uso affascinante del cinemascope ritagliato sul grande romanzo. Ma a un certo punto si avverte un alito di midcult o middlebrown. La musica è magnifica e originale ma ci si domanda il senso di applicarla a Guerra e Pace. Sembra qualcosa di aggiunto e di supplementare, di adattabile a qualsiasi opera. Verdi quando scriveva la musica per Violetta e per Rigoletto, Bizet quando la faceva per Carmen, inventavano fisionomie musicali una volta per tutte inconfondibili e irriproducibili.

Sull’Ottava Sinfonia di Shostakovich- L’adagio eseguito con il pesante inciso dei bassi dà un senso di oppressione. Segue un’inquieta frase dei violini, poi echeggiano suoni di evidente spirito militare. Dal secondo tempo al terzo: da un andamento binario si passa al rancore del terzo movimento che dà come un senso di soffocamento. Seguono feroci sonorità d’orchestra che pare abbiano fermato la guerra. L’ultima parte sono ancora i bassi cui si aggiungono le sonorità della natura che si concatenano fino alla tranquillità della quinta parte. Un allegretto che rappresenta la resurrezione dell’uomo e il risveglio dopo gli orrori della guerra. Chiederei a Shostakovich: se ogni suono deve suonare come qualche cosa d’altro che esiste oggettivamente in natura, perché non ricorrere direttamente a quest’ultimo? Via tutti gli strumenti. Senso d’opressione? Stivali e scarponi. Spirito militare?  L’adunata, la carica. Grida di disperazione? Con la voce. Le azioni del nemico? Bombe. Non si capisce perché non sia nata in Russia una musica pop che utilizzasse neanche più gli intona-rumori-reali alla John Cage, ma addirittura la trovata pittorica di rappresentare un barattolo di Campbell soup, appunto con un barattolo di Campbell soup (che poi finisce per rappresentare qualcos’altro, mentre il tentativo di rappresentare quell’oggetto stesso con mezzi espressivi disparati, arriva comunque a rappresentare null’altro che la Campbell soup, e basta).

Sul flashback- È un artificio letale, responsabile di lamentevoli imbarazzi nella nostra narrativa, di per sé un generatore automatico di poesia, per il solo fatto di averne prodotta tanta una volta.

La Poesia delle Piccole Cose è stata segnalata come sospetta e pericolosa da tutte le stazioni di polizia letteraria e fin dal tempo dell’idillio tutto acqua e sapone dei Crepuscolari col naturalismo (Agnes Varda che racconta la vita di tutti i giorni di una graziosa coppietta con dei graziosi bambini nella loro graziosa casetta).

Austria e Russia sono per l’Art Nouveaux un nido oscuro e torbido come la Carpazia per i vampiri. Le sinfonie e i canti di Mahler sono la summa di quest’eterno decadentismo a doppia faccia (la capillare angosciata e la fastosa sregolata) che produce monumenti spaventosi e squisiti: la pittura di Klimt, il romanzo di Musil, i casi clinici di Freud. Scriabin è ancora più impressionante quando preleva dall’Impressionismo interi filetti organistici di Cesar Franck e li riassapora fra Mosca e Pietroburgo con la stessa verve mortifera di quei mercanti che a Parigi acquistavano i primi Matisse e gli ultimi Odilon Redon.

La civiltà di una società si misura proprio dall’armoniosa ripartizione delle riserve fra la Celebrazione e l’Esperimento. Si fiuta la morte quando l’Esperimento è finito, si risolve nella istituzione di una nuova retorica, affianca alla tradizione una Convenzione che si ripete, anacronistica e di maniera. In Italia ripetiamo tra scenari cambiati vecchie solfe e arcaiche commedie dell’arte, con la medesima tetraggine.

Sulle ragioni della frattura tra teatro e cultura- Nei maggiori paesi europei esiste una società con una fisionomia e una letteratura (nonché teatro) al corrente con la cultura. Non delle Corporazioni chiuse che si guardano in cagnesco. Appena svaporato un certo tipo di intelligenza e di ironia, sostituito da una retorica seriosa, nemica di ogni gioco intellettuale, la Retorica del tedio s’aggrappa all’analisi del professionismo arido e faticoso. La corporazione dei letterati mantiene verso il resto della cultura un atteggiamento di ignoranza, quindi si crea e c’è una frattura fra letterati e arti figurative, musica e scienze umane.

Perché il teatro è così disastroso? Si domanda Peter Brook nel saggio sulle poltrone vuote. Il livello è catastroficamente basso, debole, ripetuto, squallido, cretino, perché non vi sono commedie che riflettono l’eccitazione, il movimento, i cambiamenti, i conflitti, le tragedie, la misera, la speranza e l’emancipazione del momento così drammatico della storia mondiale che stiamo vivendo. Perché nessuno ha seguito le indicazioni di Brecht? Perché i nostri attori sono pigri e senza passione. Perché pochi tra di loro lavorano per più di due ore ogni giorno, perché così pochi sognano il teatro, pensano e lottano per il teatro? Perché il talento e la buona volontà nel nostro paese devono sciuparsi in lamentele inutili e in auto-soddisfazioni inutili?

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Per mia fortuna la biblioteca mi ha fornito questa edizione integrale del 1965, già restaurata e comunque non in buone condizioni. È un peccato che per la ristampa Adelphi abbia deciso di sfoltirla di almeno 300 pagine. Il racconto di spettacoli di decenni fa, di grandi personalità che sembra impossibile qualcuno abbia incontrato davvero, di attori e registi e titoli che forse sono stati dimenticati e non interessano più può esserne il motivo. A parte il fatto che chi ama questi generi ne ama anche la storia, quale altra migliore testimonianza di giornalismo culturale? Arbasino, racconta un mondo, una civiltà, una cultura, con il suo stile, quello di chi si lancia con veemenza alla conquista di qualcosa, e lo fa con erudizione e leggerezza, con infiniti agganci e associazioni, anche frivolezze, con un linguaggio complesso (perché si rivolge a realtà complesse) e con un risultato estremamente efficace e “visuale”.

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Venedikt Erofeev – Mosca Petuski. (documentario)

A questo link   https://youtu.be/WHvNN0r_A8w                           è possibile vedere il documentario che Paweł Pawlikowski ha girato per la televisione inglese nel 1990, pochi mesi dopo la pubblicazione del libro di Erofeev in URSS e poco prima della morte del suo autore. Il film è ispirato al libro, ma più che altro cerca di approfondire la conoscenza dei protagonisti di questa sottocultura che ha generato un tabù e un forte imbarazzo per l’immagine sovietica. Il regista ha scoperto un ambiente brutale, dove oltre all’alcool domina la violenza. Perplesso di riuscire a rendere le qualità ispirate dal libro, apprende che tra questi individui ci sono vari livelli e che esiste una struttura con una sua elite, gli “ubriaconi colti”, quelli che erano meno vittime dell’alcol e che sono diventati
dipsomaniaci per scelta. Questi erano gli alcolisti filosofi, intelligenti, con buone letture e spesso religiosi. Erofeev stesso si è convertito al cattolicesimo due anni prima di morire e il suo intimo amico Igor Avidiev (che in Mosca sulla vodka appare con il soprannome di Nerobaffuto) cantava in un coro ortodosso per vivere. Perché allora hanno cominciato a bere? Era un modo di stimolare l’immaginazione, un sostituto dell’esperienza mistica? O era semplicemente una fuga e un modo di affrontare le costrizioni imposte dallo stile di vita sovietico?
Pawlikowski ci fa intendere che può davvero
essere stato un modo per riconciliarsi con un
mondo che era difficile da accettare, ma ci sono anche altre ragioni. Uno degli ubriachi che appare nel film suggerisce che non c’era altro da fare nella Russia sovietica. Lo psichiatra che ha avuto in cura Erofeev, intervistato nel film, afferma che nel suo caso, come per molte personalità artistiche, semplicemente trovava la vita molto difficile da sopportare. Odiava la nozione del tempo che passa, di crescere, la morte, e che doveva costantemente essere su di giri per essere distaccato da ciò che lo circondava e dai suoi pensieri. In Erofeev c’era anche qualcosa di eroico nel suo bere.
Il suo stesso stile di vita, secondo Pawlikowski, era una forma d’arte. Lui e i suoi amici esprimevano o realizzavano spontaneamente qualsiasi idea, semplicemente perché l’alcool li lasciava privi del senso delle possibili  conseguenze. Quando Pawlikowski incontrò Erofeev a Mosca, il suo cancro alla gola era già in uno stadio avanzato e veniva curato a casa. Lì Pawlikowski ha assistito alla fine della vita
colorata dalla leggenda. L’atmosfera di morte imminente era onnipresente.
Aveva un rapporto curioso con i suoi amici e con sua moglie. Queste persone avevano poche
speranze sul suo recupero, parlavano di lui al passato, come se fosse già morto. In effetti, a rileggere le ultime righe di Mosca sulla vodka si avverte una premonizione: “Loro mi piantarono la lesina proprio nella gola… Io non sapevo che al mondo esistesse un dolore simile e mi torcevo dal dolore…. E, da quel momento, non ho più ripreso coscienza, né mai la riprenderò.”

A Erofeev furono rimosse le corde vocali. Per parlare doveva utilizzare un microfono che appoggiava sulla gola, vicino alla laringe artificiale. Questo sistema gli consentiva di comunicare, tuttavia con un risultato straniante per via del ronzio e di quell’effetto artificiale, metallico e tutto sommato bizzarro. Perciò, ci si rende conto che era molto difficile parlare seriamente con lui. Lui stesso deviava ogni domanda in una battuta, un gioco di parole o una strana allusione. Ma se lo si sfidava a non prendere qualcosa sul serio, se si scherzava, lui insisteva sul contrario. Oscillava costantemente tra serietà e umorismo, incapace di stabilirsi da qualche parte. Era una mente vivace ma molto sfuggente. Si arriva a capire che viveva in gran parte attraverso le parole, che aveva un culto del linguaggio. Ascoltava molto attentamente e valutava le persone dal modo in cui parlavano.
Il linguaggio era una fuga. Tutte le battute, i giochi di parole erano un modo per affrontare il mondo.
Ecco un uomo che ha fatto della poesia qualcosa di totale, la condizione in cui vivere, la sua intera storia, giocando con le
parole o le battute. E a causa del suo vasto
bagaglio culturale, questo lo rendeva… non sopportabile.

La sua vita è stata il susseguirsi di una serie di tragedie: dalla morte del padre nel campo di concentramento, all’abbandono della madre, poi l’espulsione dall’università per essersi rifiutato di frequentare le lezioni militari. Tutto questo non può che essere stato profondamente traumatico. Così lui si è rifiutato di crescere e di prendere sul serio il suo ruolo o quello di chiunque altro. Poi ha trovato un gruppo di persone con cui poteva stare. Ma anche qui non sarà stato semplice. Lui era alto, di bell’aspetto, molto intelligente, colto, spiccava ovunque andasse, la gente si sarà sentita minacciata o attratta da lui, nessuno poteva rimanere indifferente.

Anche il suo ritrovato cattolicesimo è un gesto un po’ astruso. Non sarebbe stato più normale chiedere accoglienza nella Chiesa ortodossa russa? Avvertiva che il mondo è perso e che l’uomo da solo non ha controllo sul suo destino. Senza dubbio sentiva il bisogno di una consapevolezza assoluta, una certezza assoluta, e questo doveva essere il suo sentimento religioso. Considerava l’eroismo come un’assurda posizione di resistenza di fronte all’inevitabile. La vita è irrazionale e il bere dà accesso a questa dimensione. Ci sono cose che non puoi controllare, quindi puoi solo cedere loro, perché non sei davvero libero di agire. Come la maggior parte degli intellettuali dell’Europa dell’Est odiava l’idea di un mondo organizzato razionalmente. Il suo atteggiamento era che la realtà fosse totalmente assurda, e bisognava sottomettersi e seguirla ovunque ti porti, pur rimanendo fedele a te stesso.

L’ultima parte del film riguarda la sua scoperta e valorizzazione. Siccome Erofeev era stato pubblicato, qualcosa di positivo doveva essere detto su di lui. È diventato, improvvisamente, socialmente significativo, rispettabile politicamente e moralmente. Chiaramente, è la più grande di tutte le ironie. Tra le testimonianze, nel film c’è anche quella del Segretario del Partito Comunista di Petuski che tenta di tracciare un profilo di Erofeev. Veramente non molto riuscito. Ad un certo punto non è più in grado di andare avanti, non sa che dire. Probabilmente perché non lo ha mai letto, come confessano altri. Sotto la perestroika, l’outsider intransigente e il derisore del mondo letterario di Mosca si è guadagnato lo status di nuova figura di culto! Tra le ultime inquadrature si vede Erofeev che spiega cosa fosse esattamente il libro: “L’ho scritto per gli amici. Ottanta pagine per farli divertire e dieci per fargli dimenticare l’allegria”. Poi ci sono le immagini di lui ripreso alla première dell’adattamento teatrale, mentre riceve l’applauso del pubblico. Nel finale è a casa sua. La macchina da presa si allontana piano dal suo volto, si sente in sottofondo la sua voce che legge questo brano:

“E se un giorno morirò, morirò molto presto, lo so, morirò senza aver accettato questo mondo, avendolo compreso da vicino e da lontano, avendolo compreso da fuori e da dentro, ma senza averlo accettato, morirò, e Lui mi chiederà “Sei stato bene lì? Sei stato male?” E io starò zitto, abbasserò gli occhi e starò zitto, e questo mutismo lo conoscono tutti quelli che cercano una via d’uscita da un lungo e pesante anticiclone. Perché la vita umana non è forse un breve ciclone dell’anima? E anche un’eclissi dell’anima. È come se tutti noi fossimo ubriachi, solo ognuno per conto suo, uno ha bevuto di più, l’altro di meno, e a ciascuno fa un effetto diverso: uno ride in faccia a questo mondo, l’altro piange tra le braccia di questo mondo, uno ha già vomitato e adesso sta bene, l’altro comincia solo adesso ad avere il vomito. E io, cosa ho fatto io? Io ho assaggiato molta roba, ma non mi ha mai fatto effetto, e non ho riso neanche una volta come si deve, e non mi è mai venuto il vomito. Io, dopo aver assaggiato questo mondo tante di quelle volte da averne perso il conto e il senso, io sono il più sobrio di tutti a questo mondo, mi va semplicemente stretto. “Perché taci” mi chiede il Signore, tutto circondato da dei fulmini blu. E cosa gli rispondo? Faccio così: “Taccio, taccio….”

Letture

Venedikt Erofeev – Mosca sulla Vodka

Mi è capitata questa edizione del 1977, ma in commercio se ne trova un’altra più recente con il titolo Mosca Petuski poema ferroviario probabilmente più appropriato. Perché si tratta anche di un trattato sull’alcool, e questo gli conferisce l’aspetto comico, però sta di fatto che la vodka non è altro che una veste gettata addosso a qualsiasi cosa di cui si voglia parlare, attraverso un punto di vista esasperato, imprevedibile, carico di violazioni delle connessioni logiche, dove tutto è percepito in modo pervasivo, desolante e buio. Non è dunque assurdo indagare su questo allucinato viaggio da Mosca a Petuski, come anche cercare nella vita sregolata di questo scrittore trascurato dalla critica ufficiale. Nell’apparente bizzarria ci sono molti elementi che presuppongono una cultura viva e profonda, che rimandano alla conoscenza degli archetipi dell’inconscio, alle suggestioni filosofiche e religiose, a tanta poesia, musica, scienze.

Un mio conoscente diceva che la Koriandrovaja (vodka al coriandolo) agisce sull’uomo in modo antiumano, ovvero: rinvigorendo tutte le membra indebolisce l’anima. Chissà perché, a me invece è successo il contrario, ossia l’anima si è rinvigorita in sommo grado e le membra si sono indebolite, ma ammetto che anche questo è antiumano.”

Come ogni venerdì, Venicka compie il viaggio da Mosca a Petuski (cittadina che dista dalla capitale 100km) con il treno elettrico. Petuski è il posto dove gli uccelli non tacciono né di giorno né di notte, dove il gelsomino non sfiorisce né d’inverno né d’estate, dove il peccato originale, se veramente c’è stato, non tormenta nessuno. Dove quelli che non smaltiscono la sbornia per settimane hanno lo sguardo limpido. Laggiù alle undici precise lo aspetta una ragazza, la diavolessa dalle ciglia chiarissime e un bambino che già conosce la lettera “U”. Per questo porta con sé, in una valigia, i regali per loro: bottiglie di vodka, di vino rosatello e noci per il bambino.

Venicka è un fannullone le cui passioni lottano contro il dovere e la ragione. Dialoga con gli angeli, cita Puskin, Gogol, Block, Corneille, Turgenev e Goethe. Possiede un’anima ammalata che da quando ha coscienza di sé non fa altro che simulare la sanità mentale. Trova che tutto ciò di cui gli altri parlano e tutto ciò di cui si occupano, lo lascia indifferente. Senza affermare di conoscere la verità, ma di essersi ad essa molto avvicinato, la contempla con un misto di dolore, paura e mutismo che lo porta a bere vodka. Descrive questa melanconia universale invitando ad osservare il quadro “Il dolore inconsolabile” di Kramskoj e chiede: “Se davanti a quella principessa, un gatto avesse fatto cadere una coppa di porcellana di Sevres….lei cosa avrebbe fatto? Mai si sarebbe agitata, perché per lei era una sciocchezza, perché lei in quel momento stava al di sopra di qualsiasi Sevres…frivola e noiosa… precisamente come me.

Il dolore inconsolabile. Ivan Nikolaevič Kramskoj 

Il registro semiserio lo usa anche quando riferisce della sofferenza che prova al pensiero della grossolanità degli altri “E quelli, invece, bevono con la coscienza della propria superiorità sul mondo… A me nuoce molto la mia delicatezza, che mi ha mutilato tutta la giovinezza, tutta l’infanzia e l’adolescenza…o piuttosto no, piuttosto non si tratta di delicatezza, ma semplicemente che ho dilatato all’infinito la sfera di ciò che è intimo; e quante volte ciò mi ha rovinato.”

Bere per alleggerire l’anima. Bere tanto per imparare a rinvigorirsi. Ne fornisce il metodo: “Dalla prima alla quinta dose (bicchiere) si rinvigorisce, poi dalla sesta alla nona inclusa ci si rammollisce, dalla decima sopraggiunge la sonnolenza, con uno sforzo si beve l’undicesima per vincere il sonno. Come fare a superare l’impasse e andare avanti? Dopo la quinta bisogna bere idealmente la sesta la settima e le successive fino alla nona, d’un fiato solo, ma solo con l’immaginazione…con uno sforzo di volontà passare direttamente alla decima ed esattamente come la NONA SINFONIA di Dvorak che di fatto è la nona ma viene detta la QUINTA, esattamente bisogna fare così…. bisogna chiamare decima la sesta dose e sicuramente si rinvigorisce senza impedimenti fino alla ventottesima (trentaduesima)… seguono la follia e la deboscia.”                                          Oltre al metodo, delucida anche sulle composizioni di cocktail, assurdi e disgustosi, combinati con qualsiasi liquido, purché emanino miasmi “Si aggiunga al profumo birra, deodorante per i piedi, acqua dentifricia, soluzione antiforfora e vernice purificata. Soprattutto la vernice purificata…. Chissà perché in Russia nessuno sa di cosa sia morto Puskin, mentre chiunque sa come si purifica la vernice per i mobili.”

Certo, si potrebbe obiettare, nel mondo oltre la vodka c’è la psichiatria “…C’è anche l’astronomia extragalattica, ma tutto questo non è roba nostra riguarda gli americani e i tedeschi, come la corrida riguarda gli spagnoli e il bel canto gli italiani. Noi russi ci occupiamo del singhiozzo, bisogna rispettare ogni vocazione.”

A un certo punto del racconto si mette a indagare tra i compagni di viaggio, per scoprire chi gli ha rubato dalla valigia la mezza bottiglia di vodka Rossijskaja che aveva avanzato. I ladri sono nonno e nipote, due poveracci che si mettono a piagnucolare. Le sue reprimende contro le loro scuse sono un capolavoro: “Io vi capisco, sì. Io posso capire tutto se voglio perdonare…. La mia anima è come la pancia del cavallo di Troia, può contenere molto. Io perdono tutto se voglio capire. E io capisco…. Bene , basta lacrime. Io, se voglio capire, ho posto per tutto. Io non ho una testa, ma una casa di tolleranza.” La compassione è come l’amore non c’è differenza. La compassione e l’amore per il mondo sono indivisibili.

E a proposito dell’amore, la molteplicità di emozioni che gli provoca la “diavolessa” Una tentatrice, che non è una ragazza, ma una ballata in la bemolle maggiore, sono descritte  nella rievocazione del loro primo incontro. La narrazione è quella di uno sprofondamento, di un cortocircuito di pensieri e di sensazioni provate. Riferisce dei ragionamenti fatti sul perché di questa attrazione ed anche dello spavento sempre provato nei confronti delle donne. “Da una parte mi piaceva che (le donne) avessero il vitino di vespa; ciò mi destava languore…. ma, dall’altra parte, esse hanno sgozzato Marat…e Marat era incorruttibile e non bisognava sgozzarlo. Questo già uccideva in me il languore. Da una parte in esse mi piaceva, come a Carlo Marx, la loro debolezza, ossia che sono obbligate a pisciare sedendosi alla turca; quello mi piaceva… Ma sì mi riempiva di languore. Ma dall’altra parte, esse hanno sparato con una pistola contro Lenin! E questo uccideva il languore: se vuoi accucciarti alla turca, fa pure, ma perché sparare contro Lenin? Dopo una cosa del genere sarebbe ridicolo parlare di languore.”

Questo modo di raccontarsi autodenigrandosi, ha un fondamento eversivo. La realtà è grezza, brutale e drammatica. Allora la parlata di strada, il torpiloquio, l’affronto, l’auto-avvilimento, sono una provocazione. L’immagine che dà di sé, fondata sulla farsa, sui funambolismi che sfidano e capovolgono ogni sistema, che mettono in dubbio ogni autorevolezza, più la presa di distanze dal presente, sono l’affermazione che la vita ordinaria va distrutta. Questo è il senso del delirio allucinato finale. A conclusione, la perdita di controllo razionale è esaltata da incontri inverosimili. Con la Sfinge che lo interroga su cinque enigmi irrisolvibili. Con un maggiordomo e la principessa del “Dolore inconsolabile” che lo inquietano. Con le Erinni che volano squassando il vagone. Con Mitridate re di Ponto con il naso colante di moccio che gli trafigge i fianchi con un coltellino. Con l’operaio e la contadina del monumento della Muchina sulla Prospettiva Mira di Mosca che lo colpiscono con la falce e il martello. Con quattro assassini che lo inchiodano come Gesù. In quest’ultimo atto, dalla sfumatura religiosa, forse si può rintracciare il tentativo di trovare l’accesso a una vita più autentica.

Il manoscritto di questo romanzo, redatto su un quaderno, cominciò a girare tra amici e conoscenti. Venja Erofeev lo utilizzava come merce di scambio, cedendolo per cinque rubli che gli servivano per comprarsi una bottiglia di vodka, poi se lo faceva restituire. A un certo punto, per fortuna dopo che ne erano state stampate alcune copie battute a macchina, il quaderno sparì. Perduto. Ma, all’insaputa di Erofeev, nel 1973 uscì pubblicato da un editore di Gerusalemme. Ignorato dalla critica fino a dopo la sua morte, avvenuta per un tumore alla gola nel 1990, divenne un mito. Nello stesso anno la BBC gli dedicò un documentario e nel 2000 Mosca gli eresse un monumento, raffigurante lui alla stazione Kurskij, e la sua diavolessa in quella di Petuski. Oggi sono entrambi in un giardinetto della capitale.

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Elaine Feinstein – Anna di tutte le Russie

Ad appellarla “Anna di tutte le Russie” è stata Marina Cvetaeva. L’ammirava così tanto da dedicarle un intero ciclo di sue poesie che, raccontò a Mandelstam, l’Achmatova portava con sé in una borsetta fino a quando non si ridussero in brandelli. Quest’ultimo particolare è stato smentito dall’Achmatova che pure la riconosceva come sua pari, anche se aveva riserve sulla violenza delle sue emozioni, sulla crudezza espressiva e sul modo di esporre totalmente la sua vita interiore. Entrambe sono fra i maggiori poeti del Ventesimo secolo. Diverse per temperamento, controllata e riservata l’Achmatova, incauta e iperemotiva la Cvetaeva, rappresentano due modi di espressione poetica. Il richiamo classico, il rigore, l’asciuttezza, la prima; l’impulso a inventare forme nuove, sintassi difficile, con salti di significato, lineette e punti esclamativi, la seconda. Non furono amiche, si frequentarono poco, ma in comune hanno il dolore e l’angoscia per i propri cari imprigionati e le sofferenze per i drammi cui la vita le ha sottoposte.

Achmatova scrisse la sua prima poesia a undici anni. Il padre non gradiva che lei scrivesse perché temeva di essere disonorato, allora lei, che di cognome si chiamava Gorenko, decise di darsi lo pseudonimo “Achmatova”, cognome tataro di una principessa sua antenata che sposò Khan Akhmat, discendente di Gengis Khan.

Anche il resto della famiglia non l’apprezzava molto. La sorella Ija considerava le sue poesie frivole, invece la madre reagiva con maggior sensibilità, ma quando leggeva i versi scoppiava in lacrime ed esclamava “Non so, capisco solo che la mia povera figlia sta male”.

Come fanno a volte le persone considerate strane, Anna cominciò a ritenersi speciale, dava valore a episodi che sembravano preannunciarle un destino particolare. Era nata la notte del 23 giugno, vigilia di San Giovanni, così, pensava, aveva acquisito poteri magici. Era sonnambula e le persone accanto a lei erano preoccupate perché qualche volta camminava sull’orlo del tetto.

All’inizio le sue poesie trattavano temi intimi, le relazioni tra uomo e donna. Dalla prima guerra mondiale amplia i temi alle sofferenze del suo paese, alla tristezza, alla fede cristiana. Nel 1916 Mandelstam dichiarò che la poesia dell’Achmatova era divenuta una gloria per la Russia.

Coinvolta in tutti gli eventi cruciali del 900, rivoluzione, guerra, tirannia di Stalin, il suo coraggio fu messo a durissima prova. Ancor più difficile risultò quando il primo marito e il figlio furono rinchiusi nel gulag, quando non le veniva permesso di pubblicare e di poter vivere senza l’aiuto dei fidati amici. Nel ’22 comincia la messa al bando della sua poesia. Il critico Ejchenbaum scrisse: “Qui possiamo vedere gli inizi della paradossale o, più correttamente, contraddittoria doppia immagine dell’eroina per metà prostituta che brucia di passione e per metà suora capace di chiedere perdono a Dio”. Sulla Pravda Lev Trockij scrive: “Il circolo lirico dell’Achmatova, della Cvetaeva, della Radlova è molto ristretto. Egli [Dio] è un invitato molto opportuno…. non si capisce come trovi il tempo per dirigere i destini dell’universo, dato che è solo, non più giovane, e oberato da tutti quei fastidiosi incarichi di carattere privato”.

Anche la sua vita sentimentale è stata irrequieta come tutti gli altri ambiti della sua esistenza. Tre mariti, un numero indefinito di amori, tradimenti, ripicche, ma anche senza disagi o particolari inquietudini quando succedeva di dover soccorrere, dati i tempi precari, i famigliari dell’amante di turno, magari andando a conviverci.

Nel 1926 le fu commissionata ufficialmente una ricerca sull’opera di Puskin, cui si dedicò con una particolare eccentricità. Su Puskin scriveva analisi erudite e oggettive, ma allo stesso tempo parlava di lui come se lo avesse conosciuto personalmente, ed era evidente che provava gelosia per la moglie Natalja. Questo non è stato l’unico coinvolgimento passionale; esaminava attentamente anche le donne di Shakespeare, come se le frequentasse dal vivo. “Desdemona è affascinante ma Ofelia è un’isterica”.

Majakovskij si era espresso negativamente sulla poesia dell’Achmatova che considerava  un cimelio del passato. Una volta lesse in pubblico “Il re dagli occhi grigi” sulla melodia di un motivetto popolare.                                                                   Nel ’33 non potendo più pubblicare poesie si mise a studiare Dante insieme a Mandelstam leggendolo in originale. Parlando di se stessi, tutti e due i poeti erano concordi nel ritenere che le loro poesie nascevano da una frase musicale che a un certo punto cominciava a suonare insistentemente all’orecchio.

Nel 1935 vennero arrestati sia Punin (terzo marito) che Lev Gumilev (figlio suo e del primo marito). L’Achmatova scrisse una supplica direttamente a Stalin, cosa che fece anche Pasternak. Questi due appelli ebbero risultato, lo dimostra la risoluzione scritta di propria mano da Stalin sulla lettera dell’Achmatova. Il rilascio colse di sorpresa Punin, che aveva chiesto di poter restare in cella fino al mattino seguente, per poter andare a casa in tram.

Dal 1933 al 1938 sono gli anni del terrore staliniano. Stalin aveva detto all’NKVD, odierno KGB, che chi era arrestato per tradimento o per essere seguace di Trockij, doveva essere fucilato immediatamente, mentre i personaggi più in vista subivano un processo farsa. A Gorki, nelle grazie di Stalin, poiché malato e depresso poco gli si faceva sapere, al punto che, in occasione della persecuzione al suo amico Kamenev, furono stampate delle copie finte della Pravda solo per lui.

Il poema “Requiem” è riferito ai giorni di prigionia del figlio Lev, versi che l’autrice non poteva scrivere e che imparò a memoria ai Kresty, la prigione di Leningrado, dove rimane in fila per ore insieme ad altri familiari, nella speranza di avere notizie del figlio. “Negli anni terribili della ezovscina (grandi purghe) ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando) : -Ma questo lei può descriverlo?- E io dissi: -Posso-.

Lev Gumilev diventò un antropologo, uno dei padri fondatori della concezione moderna di una Russia eurasiatica, la quale rigetta qualsiasi tentativo di introdurre valori dell’Europa occidentale nei cosiddetti stati eurasiatici. Questa teoria, già preesistente, da lui sviluppata negli anni Sessanta, si basa sul postulato che fra gli stati eurasiatici e quelli occidentali c’è una differenza incolmabile, che si può superare solo con la vittoria di una parte sull’altra.

Lei e Pasternak erano amici e lui in più occasioni l’aveva aiutata, specie nei riguardi del figlio e correndo dei rischi. Lei però non era certa che lui l’apprezzasse davvero e se gli piacessero le sue poesie o se avesse letto qualcuna di quelle scritte prima del ’40. Inoltre le dispiaceva che ne “Il Salvacondotto” le avesse dedicato solo qualche paragrafo lodando la sua semplicità, mentre al genio della Cvetaeva aveva dedicato molte pagine. Il giudizio dell’Achmatova sul “Dottor Zivago” era che trovava bruttissime alcune pagine, e quello che la infastidiva di più era il loro tono predicatorio. Elogiò invece molto la descrizione dei paesaggi:” Non c’è niente di simile in tutta la letteratura russa, né in Turgenev né in Tolstoj.” Una volta lui le confidò di dover scrivere poesie per poter dare i soldi alla sua amante Ol’ga Ivinskaja. Lei, che detestava quella donna, gli strillò che era una fortuna per la cultura russa che lui avesse bisogno di soldi. Comunque, quando lui litigava con la moglie, prendeva il treno per Leningrado e dormiva dall’Achmatova, sul pavimento.

Brodskij nei primi anni ’60 frequentò a lungo l’Achmatova quando lei alloggiava nella dacia a Komarovo. “Conversando con lei, o semplicemente bevendo tè o vodka, diventai cristiano, un essere umano nel senso cristiano della parola”. Brodskij rimase sempre più interessato alla Cvetaeva, come poeta, ma provava per lo spirito dell’Achmatova un rispetto sempre più profondo. Nel circolo dei giovani poeti che frequentavano la dacia, si leggevano le poesie e si discuteva molto, si beveva anche parecchio. Racconta Brodskij: “Lei era una bevitrice formidabile. Se c’è qualcuno che sapeva bere, questi sono l’Achmatova e Auden. Tutte le sere dava una strigliata a me o a qualcun altro, accompagnandosi con una bottiglia di vodka. Naturalmente c’era qualcuno che non lo sopportava, ad esempio Lidija Cukoskaja (che viveva con l’Achmatova e l’accudiva). Al minimo segno del suo arrivo la bottiglia veniva nascosta…. Quando gli astemi se ne andavano, si riprendeva la bottiglia da sotto il tavolo”.

A partire dalla seconda metà degli anni ’50 all’Achmatova, completamente riabilitata, vengono assegnati importanti incarichi e riconoscimenti in patria e fuori. Nel 1964 viene insignita del premio Etna-Taormina, un importante premio letterario. Come succedeva ai russi, dovette aspettare per diversi mesi i documenti di viaggio. Lei ne era divertita: “Che cosa pensano, che poi non voglia tornare? Sono rimasta qui quando tutti se ne andavano, ho vissuto in questo paese tutta la vita per cambiare tutto adesso?” Viaggiò in treno, prima soggiornò a Roma, poi in Sicilia. Alla serata di gala si lessero le sue poesie, i poeti invitati, tra cui Arsenij Tarkovskij, lessero poesie a lei dedicate. Fu proiettato “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini. Al suo albergo arrivarono molti ammiratori e lei, mostrando il senso dell’ospitalità russa, tirò fuori dalle valigie caviale, vodka, prosciutto e pane nero per tutti.

Achmatova era considerata una donna molto bella. Alta, magra, elegante nel portamento, capace di ipnotizzare gli ascoltatori quando leggeva le sue poesie con la sua voce affascinante. Alcuni pittori la ritrassero e riuscirono a rendere quella particolare padronanza di sé, come fece Natan Al’tman

Anche in fotografia non sfugge la sua nobile compostezza. A me personalmente piace moltissimo in questa foto di Moisei Nappelbaum

E in quest’altra.

Consci che siamo inermi

e nulla possediamo

che ogni cosa è persa

_così che ogni giorno

è anniversario di memoria_

sulla nostra passata ricchezza

e sulla grande munifica dea

abbiamo iniziato a comporre

canzoni. (1915)

Il miele selvatico sa di libertà,

la polvere del raggio di sole,

la bocca verginale di viola,

e l’oro di nulla.

Ma noi abbiamo appreso per sempre

che il sangue sa solo di sangue… (1933)

Cinema, Letture

Ariaferma

Ariaferma significa condizione sospesa. In questa attesa, nel procedere della narrazione, il continuo ricorso all’allerta verso i pericoli causati da situazioni nuove e ignote, è necessario per provocare l’intensificazione emozionale, per sviluppare l’esercizio di avvicinamento attraverso la compassione, unica disposizione che motiva ad agire con un approccio genuino. (C’è del buono nel cinema italiano) ✅

Letture

Thomas Bernhard -Goethe muore

  Quattro contesti in cui pochi elementi si uniscono, si allontanano, ritornano, si ripetono, per riaffermare i suoi giudizi di sempre: il fallimento, la tirannia dei genitori verso i figli, l’odio e il disgusto verso l’Austria. Quattro racconti dove il flusso del discorso è travolgente e le sue ossessioni sono espresse dalle parole: desolazione, spaventosa ottusità, orribile, deturpazione, sgomentante, volgare, falso, abietto, bruttezza, instupidita, annientato, perversione, disgustosa, fetida, ridicola, esiziale. Malgrado ogni suo scritto sia uno “sfogo” per liberarsi dalla sofferenza e le provocazioni sono dette per colpire, più risulta feroce e intransigente, più appare straordinariamente bizzarro e divertente nelle irrisioni. Il pessimismo disperato di Bernhard è spesso frainteso. Le opere di uno scrittore (o di un artista) sono create nella speranza di una tregua, altrimenti dove troverebbe l’energia per crearle?

Goethe muore

Pochi giorni prima della sua morte, a Goethe sarebbero .. giunti da Karlsbad, auguri di pronta guarigione da parte dell’azienda di cura e soggiorno, così pure da Marienbad, mentre dalla bella Ellbogen hanno inviato a Goethe un boccale su cui egli è raffigurato insieme a Wittgenstein. ..Dalla Sicilia si è fatto vivo un professore che abita a Agrigento e che invita Goethe a vedere la sua raccolta di manoscritti goethiani. Goethe ha scritto al professore di non essere più in condizione di valicare le Alpi, benché il loro scintillio gli sia più caro del rumore del mare… A una tale Edith Lafontaine, che da Parigi gli aveva inviato alcune poesie per un giudizio, ha scritto suggerendole di rivolgersi a Voltaire, il quale lo sostituiva nel compito di evadere le lettere dei postulanti letterari. Il proprietario dell’albergo Pupp di Karlsbad si è rivolto a Goethe per chiedergli se lui, Goethe, non volesse acquistare il suo albergo per ottocento talleri -personale escluso, come si usa dire. Per il resto arrivava al Frauenplan giorno dopo giorno solamente l’ordinaria e insulsa posta di sempre…..il buono era che avevamo tante grandi stufe in cui poter gettare quella posta inutile..l’intera Germania, senza eccezioni, pensava d’un tratto di potersi rivolgere a Goethe… Così Goethe riscaldava casa perlopiù con la posta che riceveva.

Per tutto il tempo ho avuto l’impressione, così Riemer, che Goethe, finendo per legarsi a Kräuter, si sia preso come ultimo infermiere un attore del Teatro Nazionale, e ho pensato, davanti allo spettacolo di Kräuter che recitava così la sua parte al fianco di Goethe, premeva sulla fronte di Goethe la pezza umida, se ne stava lì mentre Goethe diceva: io sono l’annientamento di quanto è tedesco!, subito dopo: ma non mi sento affatto in colpa!, spostava la mano di Goethe, poiché lui stesso non aveva più la forza per farlo, un po’ più in alto sulla coperta, seguendo il proprio senso estetico, di Kräuter s’intende, così Riemer, e tuttavia senza che le mani di Goethe risultassero congiunte come quelle di un morto, cosa che perfino Kräuter trovava di cattivo gusto.

Montaigne

Alla mia famiglia e dunque hai miei torturatori ero sfuggito trovando scampo in un angolo della torre e prima…avevo preso dalla biblioteca un libro che… si rivelò essere di Montaigne..

.. Sapevano di essere spudorati, cosa che hanno sempre negato, privi di scrupoli, pericolosi per il prossimo. Allora mi hanno, per così dire, accusato di veridicità. Ma se di quando in quando, sempre per dire la verità, dicevo che sono belli, intelligenti, allora mi accusavano di mendacio. Così per tutta la vita mi hanno accusato ora di veridicità ora di mendacio, e molto spesso di veridicità e mendacio insieme, e in fondo è da una vita che mi accusano di veridicità e di mendacio, così come io stesso li accuso da una vita di mendacio e di veridicità. Posso dire quello che voglio, loro mi accusano o di veridicità o di mendacio e spesso non sanno nemmeno bene se mi stanno accusando di veridicità oppure di mendacio, così come molto spesso neanche io so bene se li sto accusando di mendacio oppure di veridicità, perché nel mio meccanismo accusatorio, che nel frattempo è già diventato una sindrome accusatoria, non riesco più a distinguere se si tratta di verità o di menzogna, così come loro non riescono più a distinguere verità è menzogna nei miei confronti…

…Io non ho mai avuto un padre e non ho mai avuto una madre, ma ho avuto sempre il mio Montaigne. I miei procreatori, che mi rifiuto di chiamare padre e madre, mi hanno ripugnato fin dal primo momento, e io ho tratto molto presto le conseguenze di questa ripugnanza e mi sono buttato dritto dritto fra le braccia del mio Montaigne, la verità è questa. Montaigne, ho sempre pensato, ha una grande, immensa famiglia filosofica, ma tutti questi membri della sua famiglia filosofica io non li ho mai amati più del loro capostipite, il mio Montaigne.

Incontro

… i nostri genitori, i quali andavano in montagna due volte all’anno e sempre ci costringevano ad andare in montagna con loro…. loro mi sollecitavano a dire che lassù in vetta regnava la quiete assoluta e così, per porre fine alle loro intimidazioni, io dicevo che lassù in vetta regnava la massima quiete, l’assoluta quiete…. Poiché ci eravamo accoccolati in un angolino riparato dal vento mia madre poté staccare dallo zaino la cetra e suonarla. Aveva sempre suonato male la cetra, a differenza di mia nonna, che sapeva suonarla come nessun altro, e quella volta sulla vetta la suonò in modo catastrofico, ho detto. Papà la investì perché la piantasse di suonare la cetra, ho detto, dopodiché staccò dallo zaino la tromba e ci soffiò dentro. Ma il vento scompigliava selvaggiamente le note della sua tromba e ben presto gli fece passare la voglia di suonarla. Infilò la tromba fra due lastre di roccia e si fece tagliare dalla mamma due grossi tocchi di pane su cui mise lui stesso varie fette di prosciutto. Anche a me diedero da mangiare, ma io non riuscii a mandare giù un solo boccone, come si suol dire. Una tale quiete, disse più volte mio padre. Il vento divenne ben presto tormenta, ho detto, e noi credevamo di dover morire assiderati sul posto… La tormenta era un buon segno, disse mio padre, ho detto. L’ascensione era durata otto ore…la tormenta faceva un tale frastuono che a malapena udii mio padre dire: che quiete regna quassù….

Tornati dall’alta montagna, ricevevo la vera punizione per il mio comportamento…. Se a mio padre non riusciva uno dei suoi disegni, dava la colpa a me, ho detto, mi ero frapposto tra lui e la luce, diceva, o con una qualche parola che gli avevo rivolto avevo distrutto una sua intuizione, come era solito esprimersi lui. Comunque ero sempre e soltanto il distruttore della sua natura di artista. Il figlio è al mondo soltanto quale distruttore dell’artista che suo padre è… E finché mio padre era vivo, io non ho scritto nemmeno una riga, ho detto. E solo quando è morto ho abbozzato uno schizzo del suo volto senza vita, ho detto. Quello schizzo mi è riuscito bene. Ma poi per anni non sono più stato capace di nulla.

Andata a fuoco

Oslo è una città noiosa e la gente lì è priva di spiritualità e per nulla interessante, come probabilmente tutti i norvegesi, ma questa è un’esperienza che ho fatto solo più tardi, quando mi sono spinto fino all’altezza di Murmansk. Una razza canina a tutt’oggi totalmente sconosciuta nell’Europa centrale, il cosiddetto Schauffler, è la sola cosa che ho scoperto lì, oltre al fatto che il cibo è pessimo e il gusto norvegese in materia d’arte è abominevole. Un paese totalmente negato per la filosofia, in cui ogni forma di pensiero soffoca in tempi brevissimi. Mi sono cimentato in un ospizio a Mosjøen, una cittadina di povera gente in cui gli abitanti ammazzano la noia suonando il pianoforte; a quanto si dice una famiglia su due a Mosjøen possiede un pianoforte, io stesso, nella casa in cui ho trascorso o meglio superato la prima notte, ho visto e sono stato costretto ad ascoltare un Bösendorfer a coda totalmente scordato che perfino la musica più melensa, di Schubert per esempio, suonata su quello strumento risultava interessante; grazie ai loro pianoforti scordati gli abitanti di Mosjøen e, come presumo, i norvegesi in generale si ritrovano ad avere sul serio un’idea della cosiddetta musica moderna oggi, più o meno automaticamente dunque, come posso affermare, giacché loro stessi non lo sospettano neppure.