Reportage o diario scritto tra il 1959 e il 1965, raccoglie le sue testimonianze sugli spettacoli visti in giro per il mondo: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Grecia, Italia. Uno sguardo aggressivo, di chi si serve di una conoscenza autentica, privilegiata e snob, che diventa anche osservazione di culture, costumi e vizi costitutivi di una società. Oggi si rilegge come fosse uno scandaglio gettato nel passato, per verificare se siamo cambiati o rimasti identici, mentre l’originalità del suo pensiero critico è ancora attuale e insuperata. La scrittura è seduttiva, ricca di preziosi dettagli, descrizioni e digressioni, mai banale o superficiale. Annota quel che vede, pubblico incluso, per poi raffrontarlo con il “conosciuto” italiano, specie i divi noti e abituali che raramente ne escono bene. La maggior parte di quegli autori e attori sono scomparsi dalla memoria, sessant’anni sono una notevole distanza, ma è altrettanto vero che non occorre ricordare chi fosse Celeste Aida Zanchi per sbellicarsi a un inciso come «indimenticabile perché il capocomico Ruggeri le proibiva di mettere le iniziali C.A.Z. sui bauli»
Il primo spettacolo recensito è “Le ragazze bruciate verdi”, ispirato a un fatto di cronaca scabroso, l’omicidio di una giovane correlato a fatti di ragazze disagiate, prostituzione e ricconi a caccia d’emozioni. Se la censura ha ostacolato il realismo di questa drammaturgia, Arbasino arbasineggia. Il dramma riesce solo a procurargli un fou rire. È l’anticipazione del tono che userà da qui in poi. Il fou rire è la reazione che smaschera realtà banali e spesso di pessimo gusto, da irridere con gusto “camp”.
Negli Stati Uniti ci va per la stagione a Broadway. Tutto altamente lontano sia dalla cultura che dalla realtà nostrana ed europea. Le commedie gli appaiono scritte unicamente pensando ai soldi e lui non salva nessuno, né O’Neill né Williams né Miller. Solo il musical, la forma di spettacolo veramente americana, vitale, divertente, prodotto di collaborazione tra vari ingegni, come l’opera italiana dell’800.
Su My Fair lady– “La morale del musical è che la differenza tra la vera signora e la donna di strada non sta nel modo di comportarsi e non è nemmeno questione di carattere, ma dipende da come viene trattata: vedi le nostre scrittrici.“
Su A Raisin in the Sun– È una commedia scritta e interpretata da negri (all’epoca era un termine utilizzato senza provocare scandalo, senza essere ritenuto necessariamente offensivo pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black), con propositi di realismo ottimistico e sentimentale. Stesso teatro carico di umanità come da noi è caratteristico di Eduardo De Filippo: gioie e dispiaceri della famiglia, naturalismo, ironie sopra i patetismi. La casa è la stessa, i problemi sempre uguali, identiche le ragioni del riso, le commozioni, aspirazioni, delusioni e speranze.
Su Shakespeare– Ha subito oltraggi sotto ogni forma pensabile, subito tagli, contaminazioni, trasformazioni, con insolenza e disistima, dimostrando come si possono prendere confidenze sciocche e sconvenienti libertà con un grande poeta che “tanto non ne soffre perché ha le spalle larghe”. Come sostiene John Gielgud: “Gli attori cercano motivazioni e appena si inizia a provare, si prova a capire di cosa si tratta: se ci troviamo di fronte a un poeta e la commedia sia di idee e non d’azione, se è rivolta ad un pubblico di un periodo storico diverso dall’attuale. Con Shakespeare la storia può anche essere pazzesca, gli eroi sembrare assurdi, i giochi di parole arcaici o incomprensibili, quindi gli attori e i registi cercano di aggirare le difficoltà ricorrendo a trucchi: spiegazioni psicoanalitiche, meraviglie di scenografia, musiche, balletti ecc. Tutte perdite di tempo. Si è anche provato a far fare la regia a importanti professori di Oxford e Cambridge, per rimanere più vicini al testo. Non ha funzionato. Si è imparato molto sul senso del ritmo dei versi, ma gli attori chiedevano quello che dovevano fare, come muoversi e questi professori non lo sapevano. In conclusione, gli attori devono usare l’immaginazione, recitare la parte con un ritmo vero, con rispetto e comprensione, questo basta a fare venire fuori le intenzioni del poeta. Devono seguire il loro istinto musicale, questo è quello che vuole Shakespeare che ha scritto per una grande orchestra con esecutori al servizio del dramma.”
Sul Teatro Greco ad Atene- All’ombra del Partenone Euripide and C. in greco moderno, quindi non si può verificare quello che si è imparato nelle versioni al liceo, per più di due ore di fila senza intervallo. Spettacolo noioso che le guide buttano sul rito e sulla sacralità del raccoglimento, senza quindi concedere sollievo agli spettatori. Katina Paxinou è il nome più importante, il resto degli attori compresa la regia sono scadenti, le musiche inaccettabili. Una messa in scena per turisti incapaci di individuare strofe e antistrofe, stasimo e parados. È come se la tragedia non fosse un’imitazione della vita ma del giornale. La sua forza emotiva sta nelle parole, nella terribilità della poesia, non nei fatti e quindi l’incanto che c’era nel libro si perde e se ne va, sostituito da suggestioni transitorie.
Gli errori, le sciocchezze, le insensatezze e le false impostazioni si riflettono anche nelle descrizioni dei comportamenti e delle mise dei partecipanti alle riunioni mondane o ai contesti culturali.
Non disdegna il teatro contemporaneo, considera abili autori Pinter, Beckett, Genet. Ionesco e Wesker, ma non riesce a descriverlo se non sul piano della sorpresa. Mescola commenti colti con interpretazioni che rimandano alla letteratura, al cinema e al teatro di serie B e C.
Su Passage to India di Forster- È il libro di uno scrittore che rompe col passato, adottando un linguaggio “semplificato” per considerare la gente comune e la vita di tutti i giorni. Si definisce compiutamente all’altezza di un sistema morale che non crede agli eroi, ai leaders, ai milionari, al cristianesimo, all’autorità, all’ascetismo, all’intolleranza, alla presunzione intellettuale. Contro i farisei, i puritani, i pedanti, gli ipocriti, contro l’imperialismo.
Su Brecht- Amore e odio. Figlio del tedio. Ci sono cose straordinarie ma poi rimane nel mito, nell’allegoria, nell’apologo e così riesce sempre con uno dei suoi limiti più fastidiosi, questo raccontare favole astratte però tutte con il suo piccolo significato dentro, che però importa poco, e il pallino della propaganda sistematica. È propaganda l’Enrico V di Shakespeare come lo è Ognuno di Hofmansthal. Il nesso tra storia e analisi sociale alle volte stufa.
Sul Musical in Inghilterra– Se è quello americano importato e con una troupe di sostituti è oramai spompato e senza vita dopo un lungo sfruttamento in casa. Se si raffrontano ci si trova di fronte a ombre smunte e decolorate. Se è quello inglese allora si tratta di un’avventura picaresco- proletaria, sullo sfondo di qualche pittoresco mestiere della classe lavoratrice nella realtà industriale odierna, oppure il classico della letteratura patria del 700/800 buttato sul ridere. “Oliver” dall’Oliver Twist di Dickens è uno spettacolo di un pasolinismo vittoriano, melodioso e tinto di seppia….La cattiveria nei confronti del bambino viene messa in musica con verve così sincera che quando si vedono in fondo alla cantina gli orfanelli col piatto di stagno in mano, cantare in onore della loro zuppa in coro da Oklahoma, si ha la certezza che buona parte della platea sta provando una pâmoison perversa nel vedere i dodicenni tormentati in scena, e per di più cantando, coi violini e tutto.
Su Zeffirelli- Ha portato dentro due istituzioni venerabili e tarlate come il Covent Garden e l’Old Vic… piccanti manierismi italiani…Il successo è stato enorme anche perché è stato accorto da servirgli il suo vecchio spumante in bottiglie insolite, avvolte in meravigliosa cellophane con tutti i colorini eccitanti attraverso i quali ogni inglese adora rappresentarsi l’Italia e i suoi incanti. Trova parole d’elogio per la messa in scena di Romeo e Giulietta dove ci sono scene dolcissime e l’interpretazione di Giulietta fatta da Judi Dench è straordinaria.
Parentesi sulle interpretazioni del testo Romeo e Giulietta- Come mai predomini la tendenza a rappresentare tutti i personaggi come diciassettenni fin troppo vitali, carichi di energie vocali e atletiche. Come li aveva immaginati Shakespeare? Con una certa precisione Shakespeare ha scritto per ciascuno dei versi squisiti, ha lasciato intendere che dovessero esprimersi con una notevole sofisticazione. Bisogna notare che oggi, invece, molti attori giovani sono più adatti a fare Tennessee Williams, cose in jeans, e se va bene, arrivano a Cechov. In quanto ai versi, non ne sono capaci. Allora, se invece lo fanno, bisogna accettare tutto quello che si vede: i versi più belli sputati via insieme a pezzi di mela.
Sul teatro a Berlino- Pullula di straordinari spettacoli operistici di Strauss e Schoenberg e poi, naturalmente, c’è anche Brecht. Dopo una lunga, serissima, esposizione sullo straniamento, si fa gioco delle scene che mette a confronto. Il grigio, il bruno e la tela da sacco, moralistici e austeri a Berlino, appena a Londra o a Roma, virano immediatamente nell’estetismo dell’arredamento giapponese e del divano svedese. Passano subito dalla zona del Rimprovero in tela di sacco, al carino della Rinascente: la stuoia, la rafia, la lampada, l’insalatiera disegnata dagli architetti. Dove più si stilizzano i fondali, più coincidono col paravento di Fornasetti, più si introduce il mobile usato più se ne compiace la Signora che ha acquistato la sua madia uguale nel cascinale della Camargue.
Sul teatro a Parigi- Un ambiente culturale superficialissimo ma piuttosto brillante e benissimo organizzato, comunque nulla che riesca a rimpiazzare i miti di ieri. Lo stesso vale per le mostre d’arte, sempre gli Impressionisti, Picasso, Matisse. Matisse verso la fine della sua vita non dipingeva più, però recuperava carte colorate che ritagliava nelle sue incantevoli forme, simili a mani, a semi, a foglie di fico, a fiori, a carte da gioco. Nei grandi fogli gialli, arancioni, celesti o verdini, colori semplici, creava l’equivalente grafico delle poesie di Valéry. Quando una stagione è proprio a terra, un direttore di teatro francese è più fortunato dei suoi colleghi italiani, ha la possibilità di mettere mano ai classicissimi, tipo Dumas o Hugo, e l’effetto è comunque sicuro. I nostri riesumano Cin_ci_là.
Sul Luna-park- Si fa un abuso del luna-park: rientra nei film, nei balletti, nelle operette e sempre quando si descrive il momento di crisi. Al luna-park negli spettacoli francesi non ci si diverte mai. Si va per perdere l’amore, il lavoro, il tempo, i soldi, la memoria, il buon senso, qualche volta anche la vita. Unica cosa che non si perde sembra essere la voglia di tornarci e oramai ogni sceneggiatore non rinuncia allo strazio dell’anima.
Abbatte i miti, pochi ne rinfranca: La serena maestà di Edwige Feuillere – L’orrenda Piaf all’Opera ancora regge – Leo Ferrè vecchio anarchico autore ex clandestino oggi condivide gli interessi del patron dei dischi.
Su Le Folies Bergeres- Folla di anziani che sbavano sulla sfarzosa rivista.
Sul teatro a Vienna- Al Burgtheater un Enrico III con rispetto straordinario per il dramma. Recitazione adatta alla vastità della sala: aulica, epica, trattenuta, meno cantata che alla Comedie Francaise e superiore ai disinvolti d’Italia e d’Inghilterra. Il pubblico assomiglia alla regina Vittoria, ad Anna Pavlova e alla Duchessa di Windsor, c’è anche un Pio XI e un Manzoni.
Sul Festival di Spoleto- 1959: a un anno dalla sua inaugurazione quando c’era tutto da scoprire è già meno divertente. 1960: Festival casuale, spettacoli scelti come viene-viene. 1961: Ha rivelato cos’è, un inseguimento all’adolescenza sfuggita per sempre da parte di un gruppo di vecchi giovanotti.
Su Tennessee Williams- Un mondo crollato con questi fantasmi di zitelline appassite e di madri possessive, di fratelli sognatori e di giovani buoni che s’involano tra illusioni nate morte. Basta con questi delirio, le aspettative sognanti con i poveri piccoli oggetti fastidiosamente simbolici, i linguaggi grossolanamente sentimentali. Testi mal scritti per le interpretazioni più manierate.
Su La Connection di Gelber- Nuovo spettacolo, noioso, vitalissimo e affascinante. È l’America che è il rovescio del cowboy eroe e del businessman che si è fatto da solo o del giornalista idealista che combatte tutto solo la sua crociata contro il sindacato del vizio.
Su Salomè- Salomè è veramente una di quelle bambinacce medio-orientali nere e tracagnotte, mignotte, ingordissime, che s’annoiano sui rotocalchi in una reggia dove tutto è piccolo e stretto. Il suo ideale sono le Folies Bergère e allora, verso sera, si mette un negliges di paillettes che mostra tutto, gira inquieta tra le terrazze afose. Accorgendosi che dentro la cisterna, come un’anguria tenuta al fresco, c’è Jochanaan, lo esige, ma lui che non gradisce i passatempi venerei, preferisce star giù…. Questa ghiottoneria appartiene a un momento così preciso dell’Art Nouveaux, si può rappresentare in molti modi: togliere tutta la decorazione, buttandola sui giochi di luce da wagneriano dell’ultimo giorno. Oramai come nel film con Rita Hayworth, Salomè è buona, si fa cristiana e danza per salvare Jochanaan, davanti a Erode che ghigna. Oppure si può seguire alla lettera il libretto pescando qualcosa di opportuno per le scene nell’atelier di Gustave Moreau.
Su Stravinskij- Nell’autunno del 1961 dirige Cajkowskij al teatro Eliseo. Le braccia sventolano le palme con un’intensità così comunicativa che la musica diventa materialmente leggibile per virtù del gesto. Tre raffronti su tre intuizioni, su musica, letteratura e teatro. Mentre il grand’uomo fa le sue galoppatine nell’entusiasmo e di tanto in tanto con la mano volta i fogli, si sviluppano le ragioni dell’affetto: perché ha sempre preso il suo bene dove lo trovava, nelle civiltà passate e in quelle presenti, a oriente e occidente, aperto a tutto senza rifiutare nulla per pregiudizio, ma sempre critico nelle scelte. Come Proust è stato tra i primi a capire che nella nostra epoca si costruisce con materiali sintetici, inautentici, e l’unica via di salvezza può essere il pastiche in quanto atto creativo-critico d’invenzione indiretta. Come ha capito Brecht, qual è la fonte del ridicolo involontario sulle scene? L’immedesimazione, e qual è il suo rimedio più sensato? L’ironia critica, cioè quel distacco da insider-outsider.
Sulla Società- A Londra hanno tradizioni talmente solide, antiche e assimila-tutto da non aver paura che l’individualismo si sfreni e l’originalità slitti nella stravaganza. A Milano (alla Scala) la straordinaria omogeneità apparente di una classe sociale che nulla tiene insieme, si è formata appena ieri, ogni giorno si trasforma, non ha ricambio perché la gente o cade dal cielo o svanisce nel nulla. Gli occhi li punta, in mancanza d’altro, sul futuro. Ogni tanto pare diventare una vera società, basata sull’accettazione da parte di tutti dei presupposti della Comunità Civile Mondiale, invece non è mai vero.
Sul Teatro moderno inglese- Wesker è come Antonioni, emblematico, entrambi sostenuti dagli snob di sinistra.Con fiera spregiudicatezza portano in scena commedie che sono il campionario delle proteste contemporanee, con la pretesa di fare teatro e poesia. Rozza efficacia scenica, sostenuta da prediche ovvie. Sentimentalismo deamicisiano più intenzioni ridicole: quando si vede la Cultura considerata un talismano magico o addirittura betteriologico, come se bastasse qualche iniezione di streptomicina per guarire da un’ora all’altra dai mali gravi (o non fosse invece un rimedio misterioso che entra adagio, magari attraverso ferite inferte dalla vita, e agisce lentamente, generando invece anticorpi se ne viene somministrata troppa in una volta sola). Il pregiudizio di Wesker è che tutti i mali della società contemporanea derivino dalla cultura di massa adulterata e velenosa, e che l’unica salvezza consista nel ritorno alle radici, alla vecchia e sana arte popolare di ispirazione folkloristica e regionale. Come sostituire “Una zebra a pois” con “La Marianna la va in campagna” per ottenere effetti paragonabili al rinsavimento dell’Enrico IV di Pirandello. La sua è una ingenua e banale illuminazione, trattare gli avvenimenti intensamente drammatici come se non esistesse la franchigia o la libera uscita come sfogo per l’accumularsi delle emozioni. Comunque in teatro a Londra fanno di continuo ottimi spettacoli. La tradizione da Shakespeare a Shaw passando per Wilde è fortissima. Tutto ricomincia con Osborne che butta giù tutto con una gran spallata, aprendo a Pinter, Beckett e a una straordinaria varietà di temi e direzioni che comprendono Shaffer, Arden, Wesker. I critici inglesi hanno avuto un ruolo importante sin dall’inizio di questa nuova fase.
Mentre i critici inglesi dimostrano ironia, competenza e soprattutto libertà di giudizio, da noi, poiché critici e teatro sono una cerchia ristretta, si conoscono tutti, diventa imbarazzante scrivere quello che si pensa. Specializzazione malintesa, giusto il contrario di quel che si richiede: competenza scientifica, d’essere guida e sostegno, che non ci si limiti alla cronaca. Spesso il critico teatrale, musicale, cinematografico, ha solo conoscenza di un’infinità di precedenti irrilevanti, quindi è incapace di comunicare con il pubblico colto, gli manca il gusto filologico, gli strumenti stilistici, l’alacrità intellettuale, l’eleganza concettuale, la ricchezza di spunti e la dispettosità sporcaccionesca. Anziché soggettivismo senza motivazione (il linguaggio è povero- le situazioni sono ordinare- mai un bel panorama) serve chiedersi il senso delle cose.
Su Beckett- Un vero maestro nel trasformare la caduta in trionfo. Davanti a noi i personaggi cascano o giacciono o rotolano o strisciano o stanno immobili, paralizzati o senza gambe. Ma intanto che mosaici torvamente ironici, che metafore vigliaccamente tragiche, che cornucopie da bons mots accademici e sediziosi. Attraverso le ostentate riduzioni della vita e delle parole al nulla, o al poco, il vero successo di questo razionalista barocco travestito da stoico protervo consiste nell’andare avanti senza rete: dimostrando che il dramma può raggiungere le stesse rigorose proliferazioni dell’Ulisse di Joyce senza bisogno di oggetti, operando solo con le leggi del pensiero. E rispetto a Proust la Realtà e la Durata si rivolge fuori dal tempo, persino facendo a meno della memoria involontaria perché l’IO di Beckett è un essere atemporale che cerca di fuggire alla prigionia dello spazio e del tempo. Fuori c’è il nulla. Lui stesso è già il Nulla.
Su Osborne- Il più bravo di tutti. Scrive superbamente, come ai bei tempi della rettorica, con un uso saporoso e pungente del parlato. È un magnifico autore di tirate memorabili che non di concentrati costruiti rispettando le regole. Mentre i più furbi mestieranti sbrodolano facilonerie tipo “il dolore del mondo” “prendiamo la nostra vita fra le braccia” che passano tranquille nelle traduzioni, senza significato. Osborne non chiacchiera su ansie metafisiche, parla di cose concrete, riferibili a tutti, così sconvolge e turba un’intera generazione di coetanei trentenni inglesi che si riconoscono nelle sue invettive e delusioni. Il pericolo è che la risonanza è locale e rimane difficilmente esportabile con altrettanta efficacia.
Su Pinter- Le commedie di Pinter sono tutte uguali come i concerti di Vivaldi, i quadri di Morandi, le imprese di James Bond. Sempre delirante, con estremo rigore in stanzacce abitate da famiglie spaventose dove le donne sono assenti o morte, alcuni sciagurati si affrontano con feroci zampate in un dialogo superbo.
Gli Stati Uniti non hanno mai avuto una vera drammaturgia così come non sono mai riusciti a creare un vero e proprio formaggio. In uno spettacolo più delle luci, dei movimenti e degli effetti conta il testo. Persino O’Neill non ha scampo. Divora Eschilo, Strindberg, Shakespeare, Hugo e Freud senza assimilarli né digerirli, li sputa fuori in una broda mal scritta. L’intento di “Strano interludio” è quello di moltiplicare profondità e molteplicità della poesia su più piani di rappresentazione, eccedere nelle ricordanze, memorie, schiarimenti, provocando rozzezza e una fantasia di luoghi comuni. Il Cabaret americano è oggi (1963) il più vivo ed eccitante del mondo. Mike Nichols e Lenny Bruce fanno dell’improvvisazione estremamente libera. Sono aspri, usano efferati dileggi contro tutti i tabù, d’altra parte in Usa il reato di vilipendio è sconosciuto.
Sul Teatro dell’Assurdo- Senso d’angoscia metafisica per l’assurdità della condizione umana, in un mondo che ha perso i suoi significati tradizionali e fa smorfie malvage e incomprensibili. A un regista che ha poco da dire risulta fastidioso sforzarsi di specificare se un personaggio piange perché è morta la mamma. Se invece piange davanti a un paracarro, questo può passare per poesia. Tutto un attribuire intenzioni, vuol dire quello? No vuole dire questo.
Sul Teatro della Crudeltà- Artaud fa le medesime analisi del mondo di Brecht. Sistemi politici ed economici e sociali basati sull’ingiustizia, avidità, sfruttamento, aggressione. L’individuo tra quelle forze ne esce impoverito, frustrato e disperato. Per Brecht questo sistema avvilisce e corrompe l’individuo che è rotella di questo ingranaggio. Il suo testo mira con fredda fermezza didattica a stimolare alla critica e invogliarti all’azione. Per Artaud il teatro deve fornire un surrogato all’azione incitando lo scatenamento delle tensioni interne dello spettatore. Brecht cerca il distacco tra attori e spettatori, tutti coinvolti nell’esperimento della vita che si svolge sul palco. In Artaud, per soddisfare lo stesso ordine di desideri inconsci che tutti inseguiamo attraverso l’amore, il delitto, le droghe, la guerra. Sembra l’anticipazione teorica dell’happening. Il Teatro della Crudeltà significa in sostanza, un certo rigore formale di espressione connesso con un certo tipo di esperienza che può produrre un risultato più vero. Per esempio, provare a trasformare l’impulso in suono o gesto, grido o salto. Come nell’Action Painting. È abbastanza ironico che le massime più intense e profonde sul teatro moderno siano state pronunciate, come in Shakespeare, da un fool. Ma è chiaro che oggi la concezione teatrale più geniale è la sua, quella che esalta un evento teatrale totale, una forma a molti livelli che coinvolge attori e pubblico, mescolando naturalismo, Nō, cabaret, cerimonia, fantascienza, metafisica. Può succedere che un dramma simbolista come “I Paraventi” di Genet, risulti più epico di “Madre Coraggio”, trascinando il pubblico nello scatenamento delle passioni umane il più possibile equivalente ai risultati dell’unico precedente che si conosca, il teatro elisabettiano (tenendo conto delle epoche). Cominciare ad aprire un dramma, ribaltarlo, ridistribuendo i materiali surrealisticamente aiutandosi con il Dada e l’Assurdo per liberarlo dalla tecnica narrativa tradizionale per vedere se non finirà per esprimere più autenticamente il suo senso.
Sul film 8e1/2 di Fellini- Un’opera che bada al presente e tenta di aprirsi in qualche modo al futuro ancorché sgangherata e baraccona è per definizione migliore dell’opera che si reclina al suo passato, rifiuta rischi e incognite, si adagia sul sicuro solco tracciato da altri coi contenuti più rassicuranti. Mentre La Dolce Vita era la resa fenomenologica del mondo esterno al regista, un occhio avidamente spalancato sulla realtà per annettersi tantissimi fatti, 8e1/2 è il rovescio, un torrente di immagini di fantasia. Modifica la realtà, cancella alcuni fatti, altri ne mette in dubbio. Fellini con il suo surrealismo dà un graffio alla storia letteraria e questi film diventano episodi nella Storia della Forma Romanzesca. Già La Dolce Vita con la sua struttura a blocchi indicava una “struttura significativa” sia per il cinema che per la letteratura. 8e1/2 dà una botta in direzione dello sperimentalismo. Come riguarda oggi la realtà? Con un’opera aperta a tutte le direzioni, disposta a tutti i significati possibili, ammettendo tutti gli opposti.
Sul film Il Gattopardo di Visconti- L’Italia ha finalmente una sua destra dignitosa e presentabile, coerente di idee, gusto, non fascista, non analfabeta, fine e ricca. Il suo regno è il tempo perduto. La sua ideologia lo Status Quo fermo. La sua arma la nostalgia. Il suo manifesto ideologico è “Il Gattopardo”. (Non diverso da una biografia romanzata del generale Franco). Lo approvano tutti persino il PCI. Il film è la passiva illustrazione del libro. Vecchi chic e belli da vedere in una lunga inquadratura decorativamente incantevole e di straordinaria lentezza. Passando da un ambiente all’altro, indugiando su quadri operistici, finisce per posarsi su un personaggio che pronuncia una frase che non porta avanti nulla. Trattandosi di un’elegia dell’immobilismo. Oggi nessuno deve sentirsi innocente a rappresentare senza mediazioni temi come le lotte risorgimentali. Né serve gravare sul Gran Ballo un’infinità di significati di dissoluzione storica, psicologica e sociale che le immagini non reggono, dato che le diverse inquadrature si potrebbero accorciare o spostare, senza che il risultato o significato cambi. Così l’interpretazione critica è affidata a una sola battuta: “In Sicilia tutto dovrà cambiare perché tutto rimanga come prima”. Come nel libro esistono momenti poetici di grande fascino, lo stesso succede nel film, ma come ha detto Marx nella “Critica alla filosofia della Destra di Hegel” la bellezza visiva è l’opposto della coscienza critica.[ahahaha]. Questa è la cosa più sconcertante in un regista come Visconti abituato alla deformazione sistematica di autori ben più importanti di Lampedusa. Questa totale assenza di critica, viene da domandarsi il senso di questa opera d’arte applicata, così poco autonoma, così priva di ragioni proprie. L’unità del film è assicurata dal sentimento di identificazione nel principe di Salina, nel suo rimpianto, nella sua nostalgia per l’Ancien Regime. Sentimenti, fatti emotivi che nulla hanno a che fare con la critica.
Oggi non se ne può più delle contaminazioni e delle trasposizioni, operazioni pseudoculturali. Al tempo stesso bisogna stare attenti anche alla ricostruzione precisa e accurata. La storicizzazione esasperata e la trasposizione sono due aspetti della stessa tendenza, al predominio arbitrario del Fatto Visivo ai danni della Parola. La maschera tutta visiva del “cerebrum non habet”.
Visconti è un gran bravo antiquario barocco decadente con l’aggiornamento rapido in materia di tematiche e di copioni per tutta una nostra modesta società provinciale. Con la seduzione audiovisiva ha trovato la soluzione: gustare l’estetismo rinascimentale più dannunziano e inebriante e allo stesso tempo salvare l’anima e la faccia davanti alla Sinistra e al Progresso. Confortato dai magnifici risultati visuali di film quali “Senso” e di parecchie regie operistiche alla Scala, importando in Italia Stanislawskij e Kazan molto abilmente coincidenti con certi moods del dopoguerra e le cattivanti fantasie di Miller e Williams, ha fatto coincidere destra e sinistra. Il tutto sostenuto da una critica paesana, prontissima a pronarsi davanti al successo. Poco importa se il testo dalle altre parti, le nazioni civili, s’incamminasse per tutt’altre strade allontanandosi da questo totalitarismo monumentale. Per questo lo studio della regia teatrale italiana negli anni recenti si identifica negli esuli scampati alla matrice viscontea.
Sul film Splendore nell’erba- La pubblicità diceva “film che scandalizzerà per l’intrepido coraggio del regista Elia Kazan nel trattare la scottante materia”. Tre ore di film che si possono riassumere così:”Cara contessa Clara, lei crede che io faccia bene a concedere ogni cosa al mio ragazzo quando me la chiede tutti i sabati sera, oppure sarà meglio soccombere alla malattia mentale e partire per il manicomio una volta per tutte?” In un Kansas del 1928 abitato da deficienti totali, Inge ambienta questo mélo fumettone e quando non riesce a venirne fuori provoca una serie di schizofrenie di quelle che travolgono regioni intere, paragonabile per vastità e conseguenze alla Peste dei Promessi Sposi. Kazan gli tiene mano con una rozzezza gigantesca: una quantità di effettacci, ostentazioni, stravaganze. Tutto talmente fuori dal tempo dalla cultura e dalla realtà, con aspirazioni al realismo e indecise allusioni all’espressionismo mai visti. Per contro con “Divorzio all’italiana” Germi può andarci giù pesante, calcare la mano sugli elementi più convenzionali del feuilleton e della farsaccia, però l’Intenzione e la scelta critica si vedono eccome. Quella materia richiedeva quel trattamento, il laido e il sozzo. Con Kazan succede il contrario perché la sua presunzione lo conduce alla banalità e alla parodia del dramma freudiano anni ’40 sui tristi effetti di una castità iperbolica.
Sull’opera Mahagonny data alla Piccola Scala- Sarebbe da trattare come un fatto di costume e non come uno spettacolo, sembra che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema quando un’opera come questa nata per il teatro popolare, viene prodotta attraverso gestazioni titaniche ed estenuazioni snobistiche.
La differenza tra Strehler e Bene è la stessa che c’è tra Brecht e Artaud. Il guaio è che la nostra situazione teatrale rende irrealizzabile l’ideale del Teatro della Crudeltà. I dileggi del pubblico fanno pensare a quali irrisioni una platea veneta avrebbe potuto lanciare a un’ipotetica rappresentazione di Brecht data dal teatrino di Ca’ Foscari subito dopo la guerra. Non importa se qualche crudezza fa senso, grossa soddisfazione che, con un teatro maggiore tutto intento a rappresentare col suo realismo tutto carino una irrealtà che esiste solo nella Favola, trovi la forza di esistere un Off di questa natura indignata e protestataria. Un consiglio: Carmelo Bene, butta via la voce impostata che è il ridicolo emblema dell’Accademia.
Sulla coreografia del Bolero realizzata da Bejart- Completamente grottesco, perché per realizzare compiutamente l’intenzione coreografica, la donna sola al centro e cinquanta giovani intorno a lei a cerchio, concupiscenti, ci volevano almeno dei ballerini americani con il fisico da giocatori di baseball o pompieri con l’idea fissa in testa del casino, invece di questi ballerinetti guizzanti da Folies Bergère che si possono solo immaginare con il phon in mano.
Su Strauss e Hofmansthal- C’è una lucida consapevolezza critica che viene fuori dal loro carteggio dove ogni effetto è discusso e previsto, bilanciando Poesia e Ruffianeria. Meandri della nascita dell’opera d’arte, come questo contemperarsi di un meraviglioso libretto con una partitura sublime, per formare un finissimo Tutto risultante da scaltrissime scelte. Non lasciando nulla al caso, affrontavano i più delicati problemi di tecnica teatrale e di resa artistica.
L’inventore dell’espressione “La casalinga di Voghera” ne ha coniata anche un’altra meno nota ma assai efficace per rappresentare un altro stereotipo. La scema di Ravenna- I film di Antonioni sono passati dall’essere un fatto culturale a un fatto sociale. Si è visto che la caricatura di un prodotto culturale più sbraga nell’insensato e nel grottesco, più si trasforma in un talismano di status, ciò assume le caratteristiche di un oggetto di prestigio. Nel nostro paese di mandarini e parvenus, i talismani che conferiscono maggior prestigio sono quelli provvisti di due caratteristiche principali: la noiosità e il falso problema. Così in un paese dove Pasolini illustra che per tre quarti le sue condizioni sono d’arretratezza, Antonioni va alla ricerca di quelle poche isole di civiltà del futuro e vi colloca, presentandoli come tipici, inevitabili disturbi semi inventati e che comunque è difficile farsi venire. La psittacosi. La Scema di Deserto rosso è predisposta alla malattia. Ma non dovrebbe lamentarsi se a furia di costeggiare ciminiere le vengono gli attacchi penosi e tristi. Sarebbe come se un allergico dopo aver corso per prati nella stagione dei pollini si lamentasse. Se soffre, la Scema, tanto più che le cause del suo male ci vengono presentate in modo sempliciotto, visto che abita a Ravenna, prenda un altro giro per le sue passeggiate, dalle parti di Galla Placidia o a Sant’Appollinare in Classe, e vedrà come le passa il suo disturbo. Sono ragionamenti terra terra? Certamente. In realtà il modello della trama sembra “Il malato immaginario” tra finzioni, imbrogli, sciocchezze e millanterie, vana solo la natura del clistere somministrato al paziente. La Scema ha manifestazioni esteriori di tormento interiore che appartengono ad ogni prima donna eccentrica degli anni ’90 (dell’800). Il trompe-l’oeil registico consiste nell’averle inquadrate in una cifra visiva che suggerisce invece modernità. La vera trappola del film sono le belle fotografie. Tutti diranno ” visivamente” “figurativamente”, ecco la trovata, l’aver girato sul pessimistico la pubblicità contemporanea. “Deserto rosso” è un prodotto di livello medio che mediante stravaganze, pretende di passare per prodotto alto, come certo accademismo rispetto alla Cultura Alta. È un prodotto kitsch per elite che divulga non temi nuovi ma adulterati, svuotati della loro forza e messi a livello di un pubblico pigro ma pretenzioso che s’illude di raggiungere valori culturali originali. Accoppiare i cliches intellettuali ricavati da un’applicazione commerciale delle “scoperte” di alcuni pensatori seri, con l’esibizione sistematica di “misteriosità” ridicole, sia di perticolari esotici per sollecitare lo spettatore a tutti i livelli.
Su Guerra e Pace di Prokofiev- Una splendida musica intelligente con meravigliosi cori epici, incantevoli valzer, trepide cabalette, uso affascinante del cinemascope ritagliato sul grande romanzo. Ma a un certo punto si avverte un alito di midcult o middlebrown. La musica è magnifica e originale ma ci si domanda il senso di applicarla a Guerra e Pace. Sembra qualcosa di aggiunto e di supplementare, di adattabile a qualsiasi opera. Verdi quando scriveva la musica per Violetta e per Rigoletto, Bizet quando la faceva per Carmen, inventavano fisionomie musicali una volta per tutte inconfondibili e irriproducibili.
Sull’Ottava Sinfonia di Shostakovich- L’adagio eseguito con il pesante inciso dei bassi dà un senso di oppressione. Segue un’inquieta frase dei violini, poi echeggiano suoni di evidente spirito militare. Dal secondo tempo al terzo: da un andamento binario si passa al rancore del terzo movimento che dà come un senso di soffocamento. Seguono feroci sonorità d’orchestra che pare abbiano fermato la guerra. L’ultima parte sono ancora i bassi cui si aggiungono le sonorità della natura che si concatenano fino alla tranquillità della quinta parte. Un allegretto che rappresenta la resurrezione dell’uomo e il risveglio dopo gli orrori della guerra. Chiederei a Shostakovich: se ogni suono deve suonare come qualche cosa d’altro che esiste oggettivamente in natura, perché non ricorrere direttamente a quest’ultimo? Via tutti gli strumenti. Senso d’opressione? Stivali e scarponi. Spirito militare? L’adunata, la carica. Grida di disperazione? Con la voce. Le azioni del nemico? Bombe. Non si capisce perché non sia nata in Russia una musica pop che utilizzasse neanche più gli intona-rumori-reali alla John Cage, ma addirittura la trovata pittorica di rappresentare un barattolo di Campbell soup, appunto con un barattolo di Campbell soup (che poi finisce per rappresentare qualcos’altro, mentre il tentativo di rappresentare quell’oggetto stesso con mezzi espressivi disparati, arriva comunque a rappresentare null’altro che la Campbell soup, e basta).
Sul flashback- È un artificio letale, responsabile di lamentevoli imbarazzi nella nostra narrativa, di per sé un generatore automatico di poesia, per il solo fatto di averne prodotta tanta una volta.
La Poesia delle Piccole Cose è stata segnalata come sospetta e pericolosa da tutte le stazioni di polizia letteraria e fin dal tempo dell’idillio tutto acqua e sapone dei Crepuscolari col naturalismo (Agnes Varda che racconta la vita di tutti i giorni di una graziosa coppietta con dei graziosi bambini nella loro graziosa casetta).
Austria e Russia sono per l’Art Nouveaux un nido oscuro e torbido come la Carpazia per i vampiri. Le sinfonie e i canti di Mahler sono la summa di quest’eterno decadentismo a doppia faccia (la capillare angosciata e la fastosa sregolata) che produce monumenti spaventosi e squisiti: la pittura di Klimt, il romanzo di Musil, i casi clinici di Freud. Scriabin è ancora più impressionante quando preleva dall’Impressionismo interi filetti organistici di Cesar Franck e li riassapora fra Mosca e Pietroburgo con la stessa verve mortifera di quei mercanti che a Parigi acquistavano i primi Matisse e gli ultimi Odilon Redon.
La civiltà di una società si misura proprio dall’armoniosa ripartizione delle riserve fra la Celebrazione e l’Esperimento. Si fiuta la morte quando l’Esperimento è finito, si risolve nella istituzione di una nuova retorica, affianca alla tradizione una Convenzione che si ripete, anacronistica e di maniera. In Italia ripetiamo tra scenari cambiati vecchie solfe e arcaiche commedie dell’arte, con la medesima tetraggine.
Sulle ragioni della frattura tra teatro e cultura- Nei maggiori paesi europei esiste una società con una fisionomia e una letteratura (nonché teatro) al corrente con la cultura. Non delle Corporazioni chiuse che si guardano in cagnesco. Appena svaporato un certo tipo di intelligenza e di ironia, sostituito da una retorica seriosa, nemica di ogni gioco intellettuale, la Retorica del tedio s’aggrappa all’analisi del professionismo arido e faticoso. La corporazione dei letterati mantiene verso il resto della cultura un atteggiamento di ignoranza, quindi si crea e c’è una frattura fra letterati e arti figurative, musica e scienze umane.
Perché il teatro è così disastroso? Si domanda Peter Brook nel saggio sulle poltrone vuote. Il livello è catastroficamente basso, debole, ripetuto, squallido, cretino, perché non vi sono commedie che riflettono l’eccitazione, il movimento, i cambiamenti, i conflitti, le tragedie, la misera, la speranza e l’emancipazione del momento così drammatico della storia mondiale che stiamo vivendo. Perché nessuno ha seguito le indicazioni di Brecht? Perché i nostri attori sono pigri e senza passione. Perché pochi tra di loro lavorano per più di due ore ogni giorno, perché così pochi sognano il teatro, pensano e lottano per il teatro? Perché il talento e la buona volontà nel nostro paese devono sciuparsi in lamentele inutili e in auto-soddisfazioni inutili?
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Per mia fortuna la biblioteca mi ha fornito questa edizione integrale del 1965, già restaurata e comunque non in buone condizioni. È un peccato che per la ristampa Adelphi abbia deciso di sfoltirla di almeno 300 pagine. Il racconto di spettacoli di decenni fa, di grandi personalità che sembra impossibile qualcuno abbia incontrato davvero, di attori e registi e titoli che forse sono stati dimenticati e non interessano più può esserne il motivo. A parte il fatto che chi ama questi generi ne ama anche la storia, quale altra migliore testimonianza di giornalismo culturale? Arbasino, racconta un mondo, una civiltà, una cultura, con il suo stile, quello di chi si lancia con veemenza alla conquista di qualcosa, e lo fa con erudizione e leggerezza, con infiniti agganci e associazioni, anche frivolezze, con un linguaggio complesso (perché si rivolge a realtà complesse) e con un risultato estremamente efficace e “visuale”.