Letture

Alberto Arbasino – Grazie per le magnifiche rose

Reportage o diario scritto tra il 1959 e il 1965, raccoglie le sue testimonianze sugli spettacoli visti in giro per il mondo: Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Grecia, Italia. Uno sguardo aggressivo, di chi si serve di una conoscenza autentica, privilegiata e snob, che diventa anche osservazione di culture, costumi e vizi costitutivi di una società. Oggi si rilegge come fosse uno scandaglio gettato nel passato, per verificare se siamo cambiati o rimasti identici, mentre l’originalità del suo pensiero critico è ancora attuale e insuperata. La scrittura è seduttiva, ricca di preziosi dettagli, descrizioni e digressioni, mai banale o superficiale. Annota quel che vede, pubblico incluso, per poi raffrontarlo con il “conosciuto” italiano, specie i divi noti e abituali che raramente ne escono bene. La maggior parte di quegli autori e attori sono scomparsi dalla memoria, sessant’anni sono una notevole distanza, ma è altrettanto vero che non occorre ricordare chi fosse Celeste Aida Zanchi per sbellicarsi a un inciso come «indimenticabile perché il capocomico Ruggeri le proibiva di mettere le iniziali C.A.Z. sui bauli»

Il primo spettacolo recensito è “Le ragazze bruciate verdi”, ispirato a un fatto di cronaca scabroso, l’omicidio di una giovane correlato a fatti di ragazze disagiate, prostituzione e ricconi a caccia d’emozioni. Se la censura ha ostacolato il realismo di questa drammaturgia, Arbasino arbasineggia. Il dramma riesce solo a procurargli un fou rire. È l’anticipazione del tono che userà da qui in poi. Il fou rire è la reazione che smaschera realtà banali e spesso di pessimo gusto, da irridere con gusto “camp”.

Negli Stati Uniti ci va per la stagione a Broadway. Tutto altamente lontano sia dalla cultura che dalla realtà nostrana ed europea. Le commedie gli appaiono scritte unicamente pensando ai soldi e lui non salva nessuno, né O’Neill né Williams né Miller. Solo il musical, la forma di spettacolo veramente americana, vitale, divertente, prodotto di collaborazione tra vari ingegni, come l’opera italiana dell’800.        

Su My Fair lady– “La morale del musical è che la differenza tra la vera signora e la donna di strada non sta nel modo di comportarsi e non è nemmeno questione di carattere, ma dipende da come viene trattata: vedi le nostre scrittrici.

Su A Raisin in the Sun– È una commedia scritta e interpretata da negri (all’epoca era un termine utilizzato senza provocare scandalo, senza essere ritenuto necessariamente offensivo pareva rendere più fedelmente l’anglo-americano black), con propositi di realismo ottimistico e sentimentale. Stesso teatro carico di umanità come da noi è caratteristico di Eduardo De Filippo: gioie e dispiaceri della famiglia, naturalismo, ironie sopra i patetismi. La casa è la stessa, i problemi sempre uguali, identiche le ragioni del riso, le commozioni, aspirazioni, delusioni e speranze. 

Su Shakespeare– Ha subito oltraggi sotto ogni forma pensabile, subito tagli, contaminazioni, trasformazioni, con insolenza e disistima,  dimostrando come si possono prendere confidenze sciocche e sconvenienti libertà con un grande poeta che “tanto non ne soffre perché ha le spalle larghe”. Come sostiene John Gielgud: “Gli attori cercano motivazioni e appena si inizia a provare, si prova a capire di cosa si tratta: se ci troviamo di fronte a un poeta e la commedia sia di idee e non d’azione, se è rivolta ad un pubblico di un periodo storico diverso dall’attuale. Con Shakespeare la storia può anche essere pazzesca, gli eroi sembrare assurdi, i giochi di parole arcaici o incomprensibili, quindi gli attori e i registi cercano di aggirare le difficoltà ricorrendo a trucchi: spiegazioni psicoanalitiche, meraviglie di scenografia, musiche, balletti ecc. Tutte perdite di tempo. Si è anche provato a far fare la regia a importanti professori di Oxford e Cambridge, per rimanere più vicini al testo. Non ha funzionato. Si è imparato molto sul senso del ritmo dei versi, ma gli attori chiedevano quello che dovevano fare, come muoversi e questi professori non lo sapevano. In conclusione, gli attori devono usare l’immaginazione, recitare la parte con un ritmo vero, con rispetto e comprensione, questo basta a fare venire fuori le intenzioni del poeta. Devono seguire il loro istinto musicale, questo è quello che vuole Shakespeare che ha scritto per una grande orchestra con esecutori al servizio del dramma.”

Sul Teatro Greco ad Atene- All’ombra del Partenone Euripide and C. in greco moderno, quindi non si può verificare quello che si è imparato nelle versioni al liceo, per più di due ore di fila senza intervallo. Spettacolo noioso che le guide buttano sul rito e sulla sacralità del raccoglimento, senza quindi concedere sollievo agli spettatori. Katina Paxinou è il nome più importante, il resto degli attori compresa la regia sono scadenti, le musiche inaccettabili. Una messa in scena per turisti incapaci di individuare strofe e antistrofe, stasimo e parados. È come se la tragedia non fosse un’imitazione della vita ma del giornale. La sua forza emotiva sta nelle parole, nella terribilità della poesia, non nei fatti e quindi l’incanto che c’era nel libro si perde e se ne va, sostituito da suggestioni transitorie.

Gli errori, le sciocchezze, le insensatezze e le false impostazioni si riflettono anche nelle descrizioni dei comportamenti e delle mise dei partecipanti alle riunioni mondane o ai contesti culturali.

Non disdegna il teatro contemporaneo, considera abili autori Pinter, Beckett, Genet. Ionesco e Wesker, ma non riesce a descriverlo se non sul piano della sorpresa. Mescola commenti colti con interpretazioni che rimandano alla letteratura, al cinema e al teatro di serie B e C.

Su Passage to India di Forster- È il libro di uno scrittore che rompe col passato, adottando un linguaggio “semplificato” per considerare la gente comune e la vita di tutti i giorni. Si definisce compiutamente all’altezza di un sistema morale che non crede agli eroi, ai leaders, ai milionari, al cristianesimo, all’autorità, all’ascetismo, all’intolleranza, alla presunzione intellettuale. Contro i farisei, i puritani, i pedanti, gli ipocriti, contro l’imperialismo.

Su Brecht- Amore e odio. Figlio del tedio. Ci sono cose straordinarie ma poi rimane nel mito, nell’allegoria, nell’apologo e così riesce sempre con uno dei suoi limiti più fastidiosi, questo raccontare favole astratte però tutte con il suo piccolo significato dentro, che però importa poco, e il pallino della propaganda sistematica. È propaganda l’Enrico V di Shakespeare come lo è Ognuno di Hofmansthal. Il nesso tra storia e analisi sociale alle volte stufa.

Sul Musical in Inghilterra– Se è quello americano importato e con una troupe di sostituti è oramai spompato e senza vita dopo un lungo sfruttamento in casa. Se si raffrontano ci si trova di fronte a ombre smunte e decolorate. Se è quello inglese allora si tratta di un’avventura picaresco- proletaria, sullo sfondo di qualche pittoresco mestiere della classe lavoratrice nella realtà industriale odierna, oppure il classico della letteratura patria del 700/800 buttato sul ridere. “Oliver” dall’Oliver Twist di Dickens è uno spettacolo di un pasolinismo vittoriano, melodioso e tinto di seppia….La cattiveria nei confronti del bambino viene messa in musica con verve così sincera che quando si vedono in fondo alla cantina gli orfanelli col piatto di stagno in mano, cantare in onore della loro zuppa in coro da Oklahoma, si ha la certezza che buona parte della platea sta provando una pâmoison perversa nel vedere i dodicenni tormentati in scena, e per di più cantando, coi violini e tutto.

Su Zeffirelli- Ha portato dentro due istituzioni venerabili e tarlate come il Covent Garden e l’Old Vic… piccanti manierismi italiani…Il successo è stato enorme anche perché è stato accorto da servirgli il suo vecchio spumante in bottiglie insolite, avvolte in meravigliosa cellophane con tutti i colorini eccitanti attraverso i quali ogni inglese adora rappresentarsi l’Italia e i suoi incanti.                                                                                Trova parole d’elogio per la messa in scena di Romeo e Giulietta dove ci sono scene dolcissime e l’interpretazione di Giulietta fatta da Judi Dench è straordinaria.

Parentesi sulle interpretazioni del testo Romeo e Giulietta- Come mai predomini la tendenza a rappresentare tutti i personaggi come diciassettenni fin troppo vitali, carichi di energie vocali e atletiche. Come li aveva immaginati Shakespeare? Con una certa precisione Shakespeare ha scritto per ciascuno dei versi squisiti, ha lasciato intendere che dovessero esprimersi con una notevole sofisticazione. Bisogna notare che oggi, invece, molti attori giovani sono più adatti a fare Tennessee Williams, cose in jeans, e se va bene, arrivano a Cechov. In quanto ai versi, non ne sono capaci. Allora, se invece lo fanno, bisogna accettare tutto quello che si vede: i versi più belli sputati via insieme a pezzi di mela.

Sul teatro a Berlino- Pullula di straordinari spettacoli operistici di Strauss e Schoenberg e poi, naturalmente, c’è anche Brecht. Dopo una lunga, serissima, esposizione sullo straniamento, si fa gioco delle scene che mette a confronto. Il grigio, il bruno e la tela da sacco, moralistici e austeri a Berlino, appena a Londra o a Roma, virano immediatamente nell’estetismo dell’arredamento giapponese e del divano svedese. Passano subito dalla zona del Rimprovero in tela di sacco, al carino della Rinascente: la stuoia, la rafia, la lampada, l’insalatiera disegnata dagli architetti. Dove più si stilizzano i fondali, più coincidono col paravento di Fornasetti, più si introduce il mobile usato più se ne compiace la Signora che ha acquistato la sua madia uguale nel cascinale della Camargue.

Sul teatro a Parigi- Un ambiente culturale superficialissimo ma piuttosto brillante e benissimo organizzato, comunque nulla che riesca a rimpiazzare i miti di ieri. Lo stesso vale per le mostre d’arte, sempre gli Impressionisti, Picasso, Matisse. Matisse verso la fine della sua vita non dipingeva più, però recuperava carte colorate che ritagliava nelle sue incantevoli forme, simili a mani, a semi, a foglie di fico, a fiori, a carte da gioco. Nei grandi fogli gialli, arancioni, celesti o verdini, colori semplici, creava l’equivalente grafico delle poesie di Valéry.                                                                        Quando una stagione è proprio a terra, un direttore di teatro francese è più fortunato dei suoi colleghi italiani, ha la possibilità di mettere mano ai classicissimi, tipo Dumas o Hugo, e l’effetto è comunque sicuro. I nostri riesumano Cin_ci_là.

Sul Luna-park- Si fa un abuso del luna-park: rientra nei film, nei balletti, nelle operette e sempre quando si descrive il momento di crisi. Al luna-park negli spettacoli francesi non ci si diverte mai. Si va per perdere l’amore, il lavoro, il tempo, i soldi, la memoria, il buon senso, qualche volta anche la vita. Unica cosa che non si perde sembra essere la voglia di tornarci e oramai ogni sceneggiatore non rinuncia allo strazio dell’anima.

Abbatte i miti, pochi ne rinfranca: La serena maestà di Edwige Feuillere – L’orrenda Piaf all’Opera ancora regge – Leo Ferrè vecchio anarchico autore ex clandestino oggi condivide gli interessi del patron dei dischi.

Su Le Folies Bergeres- Folla di anziani che sbavano sulla sfarzosa rivista.

Sul teatro a Vienna- Al Burgtheater un Enrico III con rispetto straordinario per il dramma. Recitazione adatta alla vastità della sala: aulica, epica, trattenuta, meno cantata che alla Comedie Francaise e superiore ai disinvolti d’Italia e d’Inghilterra. Il pubblico assomiglia alla regina Vittoria, ad Anna Pavlova e alla Duchessa di Windsor, c’è anche un Pio XI e un Manzoni.

Sul Festival di Spoleto- 1959: a un anno dalla sua inaugurazione quando c’era tutto da scoprire è già meno divertente. 1960: Festival casuale, spettacoli scelti come viene-viene. 1961: Ha rivelato cos’è, un inseguimento all’adolescenza sfuggita per sempre da parte di un gruppo di vecchi giovanotti.                               

Su Tennessee Williams- Un mondo crollato con questi fantasmi di zitelline appassite e di madri possessive, di fratelli sognatori e di giovani buoni che s’involano tra illusioni nate morte. Basta con questi delirio, le aspettative sognanti con i poveri piccoli oggetti fastidiosamente simbolici, i linguaggi grossolanamente sentimentali. Testi mal scritti per le interpretazioni più manierate.

Su La Connection di Gelber- Nuovo spettacolo, noioso, vitalissimo e affascinante. È l’America che è il rovescio del cowboy eroe e del businessman che si è fatto da solo o del giornalista idealista che combatte tutto solo la sua crociata contro il sindacato del vizio.

Su Salomè- Salomè è veramente una di quelle bambinacce medio-orientali nere e tracagnotte, mignotte, ingordissime, che s’annoiano sui rotocalchi in una reggia dove tutto è piccolo e stretto. Il suo ideale sono le Folies Bergère e allora, verso sera, si mette un negliges di paillettes che mostra tutto, gira inquieta tra le terrazze afose. Accorgendosi che dentro la cisterna, come un’anguria tenuta al fresco, c’è Jochanaan, lo esige, ma lui che non gradisce i passatempi venerei, preferisce star giù…. Questa ghiottoneria appartiene a un momento così preciso dell’Art Nouveaux, si può rappresentare in molti modi: togliere tutta la decorazione, buttandola sui giochi di luce da wagneriano dell’ultimo giorno. Oramai come nel film con Rita Hayworth, Salomè è buona, si fa cristiana e danza per salvare Jochanaan, davanti a Erode che ghigna. Oppure si può seguire alla lettera il libretto pescando qualcosa di opportuno per le scene nell’atelier di Gustave Moreau.

Su Stravinskij- Nell’autunno del 1961 dirige Cajkowskij al teatro Eliseo. Le braccia sventolano le palme con un’intensità così comunicativa che la musica diventa materialmente leggibile per virtù del gesto. Tre raffronti su tre intuizioni, su musica, letteratura e teatro. Mentre il grand’uomo fa le sue galoppatine nell’entusiasmo e di tanto in tanto con la mano volta i fogli, si sviluppano le ragioni dell’affetto: perché ha sempre preso il suo bene dove lo trovava, nelle civiltà passate e in quelle presenti, a oriente e occidente, aperto a tutto senza rifiutare nulla per pregiudizio, ma sempre critico nelle scelte. Come Proust è stato tra i primi a capire che nella nostra epoca si costruisce con materiali sintetici, inautentici, e l’unica via di salvezza può essere il pastiche in quanto atto creativo-critico d’invenzione indiretta. Come ha capito Brecht, qual è la fonte del ridicolo involontario sulle scene? L’immedesimazione, e qual è il suo rimedio più sensato? L’ironia critica, cioè quel distacco da insider-outsider.

Sulla Società- A Londra hanno tradizioni talmente solide, antiche e assimila-tutto da non aver paura che l’individualismo si sfreni e l’originalità slitti nella stravaganza. A Milano (alla Scala) la straordinaria omogeneità apparente di una classe sociale che nulla tiene insieme, si è formata appena ieri, ogni giorno si trasforma, non ha ricambio perché la gente o cade dal cielo o svanisce nel nulla. Gli occhi li punta, in mancanza d’altro, sul futuro. Ogni tanto pare diventare una vera società, basata sull’accettazione da parte di tutti dei presupposti della Comunità Civile Mondiale, invece non è mai vero.

Sul Teatro moderno inglese- Wesker è come Antonioni, emblematico, entrambi sostenuti dagli snob di sinistra.Con fiera spregiudicatezza portano in scena commedie che sono il campionario delle proteste contemporanee, con la pretesa di fare teatro e poesia. Rozza efficacia scenica, sostenuta da prediche ovvie. Sentimentalismo deamicisiano più intenzioni ridicole: quando si vede la Cultura considerata un talismano magico o addirittura betteriologico, come se bastasse qualche iniezione di streptomicina per guarire da un’ora all’altra dai mali gravi (o non fosse invece un rimedio misterioso che entra adagio, magari attraverso ferite inferte dalla vita, e agisce lentamente, generando invece anticorpi se ne viene somministrata troppa in una volta sola). Il pregiudizio di Wesker è che tutti i mali della società contemporanea derivino dalla cultura di massa adulterata e velenosa, e che l’unica salvezza consista nel ritorno alle radici, alla vecchia e sana arte popolare di ispirazione folkloristica e regionale. Come sostituire “Una zebra a pois” con “La Marianna la va in campagna” per ottenere effetti paragonabili al rinsavimento dell’Enrico IV di Pirandello. La sua è una ingenua e banale illuminazione, trattare gli avvenimenti intensamente drammatici come se non esistesse la franchigia o la libera uscita come sfogo per l’accumularsi delle emozioni.                                                       Comunque in teatro a Londra fanno di continuo ottimi spettacoli. La tradizione da Shakespeare a Shaw passando per Wilde è fortissima. Tutto ricomincia con Osborne che butta giù tutto con una gran spallata, aprendo a Pinter, Beckett e a una straordinaria varietà di temi e direzioni che comprendono Shaffer, Arden, Wesker. I critici inglesi hanno avuto un ruolo importante sin dall’inizio di questa nuova fase.                                                              

Mentre i critici inglesi dimostrano ironia, competenza e soprattutto libertà di giudizio, da noi, poiché critici e teatro sono una cerchia ristretta, si conoscono tutti, diventa imbarazzante scrivere quello che si pensa. Specializzazione malintesa, giusto il contrario di quel che si richiede: competenza scientifica, d’essere guida e sostegno, che non ci si limiti alla cronaca. Spesso il critico teatrale, musicale, cinematografico, ha solo conoscenza di un’infinità di precedenti irrilevanti, quindi è incapace di comunicare con il pubblico colto, gli manca il gusto filologico, gli strumenti stilistici, l’alacrità intellettuale, l’eleganza concettuale, la ricchezza di spunti e la dispettosità sporcaccionesca. Anziché soggettivismo senza motivazione (il linguaggio è povero- le situazioni sono ordinare- mai un bel panorama) serve chiedersi il senso delle cose.

Su Beckett- Un vero maestro nel trasformare la caduta in trionfo. Davanti a noi i personaggi cascano o giacciono o rotolano o strisciano o stanno immobili, paralizzati o senza gambe. Ma intanto che mosaici torvamente ironici, che metafore vigliaccamente tragiche, che cornucopie da bons mots accademici e sediziosi. Attraverso le ostentate riduzioni della vita e delle parole al nulla, o al poco, il vero successo di questo razionalista barocco travestito da stoico protervo consiste nell’andare avanti senza rete: dimostrando che il dramma può raggiungere le stesse rigorose proliferazioni dell’Ulisse di Joyce senza bisogno di oggetti, operando solo con le leggi del pensiero. E rispetto a Proust la Realtà e la Durata si rivolge fuori dal tempo, persino facendo a meno della memoria involontaria perché l’IO di Beckett è un essere atemporale che cerca di fuggire alla prigionia dello spazio e del tempo. Fuori c’è il nulla. Lui stesso è già il Nulla.

Su Osborne- Il più bravo di tutti. Scrive superbamente, come ai bei tempi della rettorica, con un uso saporoso e pungente del parlato. È un magnifico autore di tirate memorabili che non di concentrati costruiti rispettando le regole. Mentre i più furbi mestieranti sbrodolano facilonerie tipo “il dolore del mondo” “prendiamo la nostra vita fra le braccia” che passano tranquille nelle traduzioni, senza significato. Osborne non chiacchiera su ansie metafisiche, parla di cose concrete, riferibili a tutti, così sconvolge e turba un’intera generazione di coetanei trentenni inglesi che si riconoscono nelle sue invettive e delusioni. Il pericolo è che la risonanza è locale e rimane difficilmente esportabile con altrettanta efficacia.

Su Pinter- Le commedie di Pinter sono tutte uguali come i concerti di Vivaldi, i quadri di Morandi, le imprese di James Bond. Sempre delirante, con estremo rigore in stanzacce abitate da famiglie spaventose dove le donne sono assenti o morte, alcuni sciagurati si affrontano con feroci zampate in un dialogo superbo.

Gli Stati Uniti non hanno mai avuto una vera drammaturgia così come non sono mai riusciti a creare un vero e proprio formaggio. In uno spettacolo più delle luci, dei movimenti e degli effetti conta il testo.                                        Persino O’Neill non ha scampo. Divora Eschilo, Strindberg, Shakespeare, Hugo e Freud senza assimilarli né digerirli, li sputa fuori in una broda mal scritta. L’intento di “Strano interludio” è quello di moltiplicare profondità e molteplicità della poesia su più piani di rappresentazione, eccedere nelle ricordanze, memorie, schiarimenti, provocando rozzezza e una fantasia di luoghi comuni.                                Il Cabaret americano è oggi (1963) il più vivo ed eccitante del mondo. Mike Nichols e Lenny Bruce fanno dell’improvvisazione estremamente libera. Sono aspri, usano efferati dileggi contro tutti i tabù, d’altra parte in Usa il reato di vilipendio è sconosciuto.

Sul Teatro dell’Assurdo- Senso d’angoscia metafisica per l’assurdità della condizione umana, in un mondo che ha perso i suoi significati tradizionali e fa smorfie malvage e incomprensibili. A un regista che ha poco da dire risulta fastidioso sforzarsi di specificare se un personaggio piange perché è morta la mamma. Se invece piange davanti a un paracarro, questo può passare per poesia. Tutto un attribuire intenzioni, vuol dire quello? No vuole dire questo.

Sul Teatro della Crudeltà- Artaud fa le medesime analisi del mondo di Brecht. Sistemi politici ed economici e sociali basati sull’ingiustizia, avidità, sfruttamento, aggressione. L’individuo tra quelle forze ne esce impoverito, frustrato e disperato. Per Brecht questo sistema avvilisce e corrompe l’individuo che è rotella di questo ingranaggio. Il suo testo mira con fredda fermezza didattica a stimolare alla critica e invogliarti all’azione. Per Artaud il teatro deve fornire un surrogato all’azione incitando lo scatenamento delle tensioni interne dello spettatore. Brecht cerca il distacco tra attori e spettatori, tutti coinvolti nell’esperimento della vita che si svolge sul palco. In Artaud, per soddisfare lo stesso ordine di desideri inconsci che tutti inseguiamo attraverso l’amore, il delitto, le droghe, la guerra. Sembra l’anticipazione teorica dell’happening. Il Teatro della Crudeltà significa in sostanza, un certo rigore formale di espressione connesso con un certo tipo di esperienza che può produrre un risultato più vero. Per esempio, provare a trasformare l’impulso in suono o gesto, grido o salto. Come nell’Action Painting. È abbastanza ironico che le massime più intense e profonde sul teatro moderno siano state pronunciate, come in Shakespeare, da un fool. Ma è chiaro che oggi la concezione teatrale più geniale è la sua, quella che esalta un evento teatrale totale, una forma a molti livelli che coinvolge attori e pubblico, mescolando naturalismo, Nō, cabaret, cerimonia, fantascienza, metafisica. Può succedere che un dramma simbolista come “I Paraventi” di Genet, risulti più epico di “Madre Coraggio”, trascinando il pubblico nello scatenamento delle passioni umane il più possibile equivalente ai risultati dell’unico precedente che si conosca, il teatro elisabettiano (tenendo conto delle epoche). Cominciare ad aprire un dramma, ribaltarlo, ridistribuendo i materiali surrealisticamente aiutandosi con il Dada e l’Assurdo per liberarlo dalla tecnica narrativa tradizionale per vedere se non finirà per esprimere più autenticamente il suo senso.

Sul film 8e1/2 di Fellini- Un’opera che bada al presente e tenta di aprirsi in qualche modo al futuro ancorché sgangherata e baraccona è per definizione migliore dell’opera che si reclina al suo passato, rifiuta rischi e incognite, si adagia sul sicuro solco tracciato da altri coi contenuti più rassicuranti. Mentre La Dolce Vita era la resa fenomenologica del mondo esterno al regista, un occhio avidamente spalancato sulla realtà per annettersi tantissimi fatti, 8e1/2 è il rovescio, un torrente di immagini di fantasia. Modifica la realtà, cancella alcuni fatti, altri ne mette in dubbio. Fellini con il suo surrealismo dà un graffio alla storia letteraria e questi film diventano episodi nella Storia della Forma Romanzesca. Già La Dolce Vita con la sua struttura a blocchi indicava una “struttura significativa” sia per il cinema che per la letteratura. 8e1/2 dà una botta in direzione dello sperimentalismo. Come riguarda oggi la realtà? Con un’opera aperta a tutte le direzioni, disposta a tutti i significati possibili, ammettendo tutti gli opposti.

Sul film Il Gattopardo di Visconti- L’Italia ha finalmente una sua destra dignitosa e presentabile, coerente di idee, gusto, non fascista, non analfabeta, fine e ricca. Il suo regno è il tempo perduto. La sua ideologia lo Status Quo fermo. La sua arma la nostalgia. Il suo manifesto ideologico è “Il Gattopardo”. (Non diverso da una biografia romanzata del generale Franco). Lo approvano tutti persino il PCI. Il film è la passiva illustrazione del libro. Vecchi chic e belli da vedere in una lunga inquadratura decorativamente incantevole e di straordinaria lentezza. Passando da un ambiente all’altro, indugiando su quadri operistici, finisce per posarsi su un personaggio che pronuncia una frase che non porta avanti nulla. Trattandosi di un’elegia dell’immobilismo. Oggi nessuno deve sentirsi innocente a rappresentare senza mediazioni temi come le lotte risorgimentali. Né serve gravare sul Gran Ballo un’infinità di significati di dissoluzione storica, psicologica e sociale che le immagini non reggono, dato che le diverse inquadrature si potrebbero accorciare o spostare, senza che il risultato o significato cambi. Così l’interpretazione critica è affidata a una sola battuta: “In Sicilia tutto dovrà cambiare perché tutto rimanga come prima”. Come nel libro esistono momenti poetici di grande fascino, lo stesso succede nel film, ma come ha detto Marx nella “Critica alla filosofia della Destra di Hegel” la bellezza visiva è l’opposto della coscienza critica.[ahahaha].                                                            Questa è la cosa più sconcertante in un regista come Visconti abituato alla deformazione sistematica di autori ben più importanti di Lampedusa. Questa totale assenza di critica, viene da domandarsi il senso di questa opera d’arte applicata, così poco autonoma, così priva di ragioni proprie. L’unità del film è assicurata dal sentimento di identificazione nel principe di Salina, nel suo rimpianto, nella sua nostalgia per l’Ancien Regime. Sentimenti, fatti emotivi che nulla hanno a che fare con la critica.

Oggi non se ne può più delle contaminazioni e delle trasposizioni, operazioni pseudoculturali. Al tempo stesso bisogna stare attenti anche alla ricostruzione precisa e accurata. La storicizzazione esasperata e la trasposizione sono due aspetti della stessa tendenza, al predominio arbitrario del Fatto Visivo ai danni della Parola. La maschera tutta visiva del “cerebrum non habet”.

Visconti è un gran bravo antiquario barocco decadente con l’aggiornamento rapido in materia di tematiche e di copioni per tutta una nostra modesta società provinciale. Con la seduzione audiovisiva ha trovato la soluzione: gustare l’estetismo rinascimentale più dannunziano e inebriante e allo stesso tempo salvare l’anima e la faccia davanti alla Sinistra e al Progresso. Confortato dai magnifici risultati visuali di film quali “Senso” e di parecchie regie operistiche alla Scala, importando in Italia Stanislawskij e Kazan molto abilmente coincidenti con certi moods del dopoguerra e le cattivanti fantasie di Miller e Williams, ha fatto coincidere destra e sinistra. Il tutto sostenuto da una critica paesana, prontissima a pronarsi davanti al successo. Poco importa se il testo dalle altre parti, le nazioni civili, s’incamminasse per tutt’altre strade allontanandosi da questo totalitarismo monumentale. Per questo lo studio della regia teatrale italiana negli anni recenti si identifica negli esuli scampati alla matrice viscontea.

Sul film Splendore nell’erba- La pubblicità diceva “film che scandalizzerà per l’intrepido coraggio del regista Elia Kazan nel trattare la scottante materia”. Tre ore di film che si possono riassumere così:”Cara contessa Clara, lei crede che io faccia bene a concedere ogni cosa al mio ragazzo quando me la chiede tutti i sabati sera, oppure sarà meglio soccombere alla malattia mentale e partire per il manicomio una volta per tutte?” In un Kansas del 1928 abitato da deficienti totali, Inge ambienta questo mélo fumettone e quando non riesce a venirne fuori provoca una serie di schizofrenie di quelle che travolgono regioni intere, paragonabile per vastità e conseguenze alla Peste dei Promessi Sposi. Kazan gli tiene mano con una rozzezza gigantesca: una quantità di effettacci, ostentazioni, stravaganze. Tutto talmente fuori dal tempo dalla cultura e dalla realtà, con aspirazioni al realismo e indecise allusioni all’espressionismo mai visti. Per contro con “Divorzio all’italiana” Germi può andarci giù pesante, calcare la mano sugli elementi più convenzionali del feuilleton e della farsaccia, però l’Intenzione e la scelta critica si vedono eccome. Quella materia richiedeva quel trattamento, il laido e il sozzo. Con Kazan succede il contrario perché la sua presunzione lo conduce alla banalità e alla parodia del dramma freudiano anni ’40 sui tristi effetti di una castità iperbolica.

Sull’opera Mahagonny data alla Piccola Scala- Sarebbe da trattare come un fatto di costume e non come uno spettacolo, sembra che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema quando un’opera come questa nata per il teatro popolare, viene prodotta attraverso gestazioni titaniche ed estenuazioni snobistiche.       

La differenza tra Strehler e Bene è la stessa che c’è tra Brecht e Artaud. Il guaio è che la nostra situazione teatrale rende irrealizzabile l’ideale del Teatro della Crudeltà. I dileggi del pubblico fanno pensare a quali irrisioni una platea veneta avrebbe potuto lanciare a un’ipotetica rappresentazione di Brecht data dal teatrino di Ca’ Foscari subito dopo la guerra. Non importa se qualche crudezza fa senso, grossa soddisfazione che, con un teatro maggiore tutto intento a rappresentare col suo realismo tutto carino una irrealtà che esiste solo nella Favola, trovi la forza di esistere un Off di questa natura indignata e protestataria.                                       Un consiglio: Carmelo Bene, butta via la voce impostata che è il ridicolo emblema dell’Accademia.

Sulla coreografia del Bolero realizzata da Bejart- Completamente grottesco, perché per realizzare compiutamente l’intenzione coreografica, la donna sola al centro e cinquanta giovani intorno a lei a cerchio, concupiscenti, ci volevano almeno dei ballerini americani con il fisico da giocatori di baseball o pompieri con l’idea fissa in testa del casino, invece di questi ballerinetti guizzanti da Folies Bergère che si possono solo immaginare con il phon in mano.

Su Strauss e Hofmansthal- C’è una lucida consapevolezza critica che viene fuori dal loro carteggio dove ogni effetto è discusso e previsto, bilanciando Poesia e Ruffianeria. Meandri della nascita dell’opera d’arte, come questo contemperarsi di un meraviglioso libretto con una partitura sublime, per formare un finissimo Tutto risultante da scaltrissime scelte. Non lasciando nulla al caso, affrontavano i più delicati problemi di tecnica teatrale e di resa artistica.

L’inventore dell’espressione “La casalinga di Voghera” ne ha coniata anche un’altra meno nota ma assai efficace per rappresentare un altro stereotipo. La scema di Ravenna- I film di Antonioni sono passati dall’essere un fatto culturale a un fatto sociale. Si è visto che la caricatura di un prodotto culturale più sbraga nell’insensato e nel grottesco, più si trasforma in un talismano di status, ciò assume le caratteristiche di un oggetto di prestigio. Nel nostro paese di mandarini e parvenus, i talismani che conferiscono maggior prestigio sono quelli provvisti di due caratteristiche principali: la noiosità e il falso problema. Così in un paese dove Pasolini illustra che per tre quarti le sue condizioni sono d’arretratezza, Antonioni va alla ricerca di quelle poche isole di civiltà del futuro e vi colloca, presentandoli come tipici, inevitabili disturbi semi inventati e che comunque è difficile farsi venire. La psittacosi. La Scema di Deserto rosso è predisposta alla malattia. Ma non dovrebbe lamentarsi se a furia di costeggiare ciminiere le vengono gli attacchi penosi e tristi. Sarebbe come se un allergico dopo aver corso per prati nella stagione dei pollini si lamentasse. Se soffre, la Scema, tanto più che le cause del suo male ci vengono presentate in modo sempliciotto, visto che abita a Ravenna, prenda un altro giro per le sue passeggiate, dalle parti di Galla Placidia o a Sant’Appollinare in Classe, e vedrà come le passa il suo disturbo. Sono ragionamenti terra terra? Certamente. In realtà il modello della trama sembra “Il malato immaginario” tra finzioni, imbrogli, sciocchezze e millanterie, vana solo la natura del clistere somministrato al paziente. La Scema ha manifestazioni esteriori di tormento interiore che appartengono ad ogni prima donna eccentrica degli anni ’90 (dell’800). Il trompe-l’oeil registico consiste nell’averle inquadrate in una cifra visiva che suggerisce invece modernità. La vera trappola del film sono le belle fotografie. Tutti diranno ” visivamente” “figurativamente”, ecco la trovata, l’aver girato sul pessimistico la pubblicità contemporanea.           “Deserto rosso” è un prodotto di livello medio che mediante stravaganze, pretende di passare per prodotto alto, come certo accademismo rispetto alla Cultura Alta. È un prodotto kitsch per elite che divulga non temi nuovi ma adulterati, svuotati della loro forza e messi a livello di un pubblico pigro ma pretenzioso che s’illude di raggiungere valori culturali originali. Accoppiare i cliches intellettuali ricavati da un’applicazione commerciale delle “scoperte” di alcuni pensatori seri, con l’esibizione sistematica di “misteriosità” ridicole, sia di perticolari esotici per sollecitare lo spettatore a tutti i livelli.

Su Guerra e Pace di Prokofiev- Una splendida musica intelligente con meravigliosi cori epici, incantevoli valzer, trepide cabalette, uso affascinante del cinemascope ritagliato sul grande romanzo. Ma a un certo punto si avverte un alito di midcult o middlebrown. La musica è magnifica e originale ma ci si domanda il senso di applicarla a Guerra e Pace. Sembra qualcosa di aggiunto e di supplementare, di adattabile a qualsiasi opera. Verdi quando scriveva la musica per Violetta e per Rigoletto, Bizet quando la faceva per Carmen, inventavano fisionomie musicali una volta per tutte inconfondibili e irriproducibili.

Sull’Ottava Sinfonia di Shostakovich- L’adagio eseguito con il pesante inciso dei bassi dà un senso di oppressione. Segue un’inquieta frase dei violini, poi echeggiano suoni di evidente spirito militare. Dal secondo tempo al terzo: da un andamento binario si passa al rancore del terzo movimento che dà come un senso di soffocamento. Seguono feroci sonorità d’orchestra che pare abbiano fermato la guerra. L’ultima parte sono ancora i bassi cui si aggiungono le sonorità della natura che si concatenano fino alla tranquillità della quinta parte. Un allegretto che rappresenta la resurrezione dell’uomo e il risveglio dopo gli orrori della guerra. Chiederei a Shostakovich: se ogni suono deve suonare come qualche cosa d’altro che esiste oggettivamente in natura, perché non ricorrere direttamente a quest’ultimo? Via tutti gli strumenti. Senso d’opressione? Stivali e scarponi. Spirito militare?  L’adunata, la carica. Grida di disperazione? Con la voce. Le azioni del nemico? Bombe. Non si capisce perché non sia nata in Russia una musica pop che utilizzasse neanche più gli intona-rumori-reali alla John Cage, ma addirittura la trovata pittorica di rappresentare un barattolo di Campbell soup, appunto con un barattolo di Campbell soup (che poi finisce per rappresentare qualcos’altro, mentre il tentativo di rappresentare quell’oggetto stesso con mezzi espressivi disparati, arriva comunque a rappresentare null’altro che la Campbell soup, e basta).

Sul flashback- È un artificio letale, responsabile di lamentevoli imbarazzi nella nostra narrativa, di per sé un generatore automatico di poesia, per il solo fatto di averne prodotta tanta una volta.

La Poesia delle Piccole Cose è stata segnalata come sospetta e pericolosa da tutte le stazioni di polizia letteraria e fin dal tempo dell’idillio tutto acqua e sapone dei Crepuscolari col naturalismo (Agnes Varda che racconta la vita di tutti i giorni di una graziosa coppietta con dei graziosi bambini nella loro graziosa casetta).

Austria e Russia sono per l’Art Nouveaux un nido oscuro e torbido come la Carpazia per i vampiri. Le sinfonie e i canti di Mahler sono la summa di quest’eterno decadentismo a doppia faccia (la capillare angosciata e la fastosa sregolata) che produce monumenti spaventosi e squisiti: la pittura di Klimt, il romanzo di Musil, i casi clinici di Freud. Scriabin è ancora più impressionante quando preleva dall’Impressionismo interi filetti organistici di Cesar Franck e li riassapora fra Mosca e Pietroburgo con la stessa verve mortifera di quei mercanti che a Parigi acquistavano i primi Matisse e gli ultimi Odilon Redon.

La civiltà di una società si misura proprio dall’armoniosa ripartizione delle riserve fra la Celebrazione e l’Esperimento. Si fiuta la morte quando l’Esperimento è finito, si risolve nella istituzione di una nuova retorica, affianca alla tradizione una Convenzione che si ripete, anacronistica e di maniera. In Italia ripetiamo tra scenari cambiati vecchie solfe e arcaiche commedie dell’arte, con la medesima tetraggine.

Sulle ragioni della frattura tra teatro e cultura- Nei maggiori paesi europei esiste una società con una fisionomia e una letteratura (nonché teatro) al corrente con la cultura. Non delle Corporazioni chiuse che si guardano in cagnesco. Appena svaporato un certo tipo di intelligenza e di ironia, sostituito da una retorica seriosa, nemica di ogni gioco intellettuale, la Retorica del tedio s’aggrappa all’analisi del professionismo arido e faticoso. La corporazione dei letterati mantiene verso il resto della cultura un atteggiamento di ignoranza, quindi si crea e c’è una frattura fra letterati e arti figurative, musica e scienze umane.

Perché il teatro è così disastroso? Si domanda Peter Brook nel saggio sulle poltrone vuote. Il livello è catastroficamente basso, debole, ripetuto, squallido, cretino, perché non vi sono commedie che riflettono l’eccitazione, il movimento, i cambiamenti, i conflitti, le tragedie, la misera, la speranza e l’emancipazione del momento così drammatico della storia mondiale che stiamo vivendo. Perché nessuno ha seguito le indicazioni di Brecht? Perché i nostri attori sono pigri e senza passione. Perché pochi tra di loro lavorano per più di due ore ogni giorno, perché così pochi sognano il teatro, pensano e lottano per il teatro? Perché il talento e la buona volontà nel nostro paese devono sciuparsi in lamentele inutili e in auto-soddisfazioni inutili?

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Per mia fortuna la biblioteca mi ha fornito questa edizione integrale del 1965, già restaurata e comunque non in buone condizioni. È un peccato che per la ristampa Adelphi abbia deciso di sfoltirla di almeno 300 pagine. Il racconto di spettacoli di decenni fa, di grandi personalità che sembra impossibile qualcuno abbia incontrato davvero, di attori e registi e titoli che forse sono stati dimenticati e non interessano più può esserne il motivo. A parte il fatto che chi ama questi generi ne ama anche la storia, quale altra migliore testimonianza di giornalismo culturale? Arbasino, racconta un mondo, una civiltà, una cultura, con il suo stile, quello di chi si lancia con veemenza alla conquista di qualcosa, e lo fa con erudizione e leggerezza, con infiniti agganci e associazioni, anche frivolezze, con un linguaggio complesso (perché si rivolge a realtà complesse) e con un risultato estremamente efficace e “visuale”.

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Venedikt Erofeev – Mosca Petuski. (documentario)

A questo link   https://youtu.be/WHvNN0r_A8w                           è possibile vedere il documentario che Paweł Pawlikowski ha girato per la televisione inglese nel 1990, pochi mesi dopo la pubblicazione del libro di Erofeev in URSS e poco prima della morte del suo autore. Il film è ispirato al libro, ma più che altro cerca di approfondire la conoscenza dei protagonisti di questa sottocultura che ha generato un tabù e un forte imbarazzo per l’immagine sovietica. Il regista ha scoperto un ambiente brutale, dove oltre all’alcool domina la violenza. Perplesso di riuscire a rendere le qualità ispirate dal libro, apprende che tra questi individui ci sono vari livelli e che esiste una struttura con una sua elite, gli “ubriaconi colti”, quelli che erano meno vittime dell’alcol e che sono diventati
dipsomaniaci per scelta. Questi erano gli alcolisti filosofi, intelligenti, con buone letture e spesso religiosi. Erofeev stesso si è convertito al cattolicesimo due anni prima di morire e il suo intimo amico Igor Avidiev (che in Mosca sulla vodka appare con il soprannome di Nerobaffuto) cantava in un coro ortodosso per vivere. Perché allora hanno cominciato a bere? Era un modo di stimolare l’immaginazione, un sostituto dell’esperienza mistica? O era semplicemente una fuga e un modo di affrontare le costrizioni imposte dallo stile di vita sovietico?
Pawlikowski ci fa intendere che può davvero
essere stato un modo per riconciliarsi con un
mondo che era difficile da accettare, ma ci sono anche altre ragioni. Uno degli ubriachi che appare nel film suggerisce che non c’era altro da fare nella Russia sovietica. Lo psichiatra che ha avuto in cura Erofeev, intervistato nel film, afferma che nel suo caso, come per molte personalità artistiche, semplicemente trovava la vita molto difficile da sopportare. Odiava la nozione del tempo che passa, di crescere, la morte, e che doveva costantemente essere su di giri per essere distaccato da ciò che lo circondava e dai suoi pensieri. In Erofeev c’era anche qualcosa di eroico nel suo bere.
Il suo stesso stile di vita, secondo Pawlikowski, era una forma d’arte. Lui e i suoi amici esprimevano o realizzavano spontaneamente qualsiasi idea, semplicemente perché l’alcool li lasciava privi del senso delle possibili  conseguenze. Quando Pawlikowski incontrò Erofeev a Mosca, il suo cancro alla gola era già in uno stadio avanzato e veniva curato a casa. Lì Pawlikowski ha assistito alla fine della vita
colorata dalla leggenda. L’atmosfera di morte imminente era onnipresente.
Aveva un rapporto curioso con i suoi amici e con sua moglie. Queste persone avevano poche
speranze sul suo recupero, parlavano di lui al passato, come se fosse già morto. In effetti, a rileggere le ultime righe di Mosca sulla vodka si avverte una premonizione: “Loro mi piantarono la lesina proprio nella gola… Io non sapevo che al mondo esistesse un dolore simile e mi torcevo dal dolore…. E, da quel momento, non ho più ripreso coscienza, né mai la riprenderò.”

A Erofeev furono rimosse le corde vocali. Per parlare doveva utilizzare un microfono che appoggiava sulla gola, vicino alla laringe artificiale. Questo sistema gli consentiva di comunicare, tuttavia con un risultato straniante per via del ronzio e di quell’effetto artificiale, metallico e tutto sommato bizzarro. Perciò, ci si rende conto che era molto difficile parlare seriamente con lui. Lui stesso deviava ogni domanda in una battuta, un gioco di parole o una strana allusione. Ma se lo si sfidava a non prendere qualcosa sul serio, se si scherzava, lui insisteva sul contrario. Oscillava costantemente tra serietà e umorismo, incapace di stabilirsi da qualche parte. Era una mente vivace ma molto sfuggente. Si arriva a capire che viveva in gran parte attraverso le parole, che aveva un culto del linguaggio. Ascoltava molto attentamente e valutava le persone dal modo in cui parlavano.
Il linguaggio era una fuga. Tutte le battute, i giochi di parole erano un modo per affrontare il mondo.
Ecco un uomo che ha fatto della poesia qualcosa di totale, la condizione in cui vivere, la sua intera storia, giocando con le
parole o le battute. E a causa del suo vasto
bagaglio culturale, questo lo rendeva… non sopportabile.

La sua vita è stata il susseguirsi di una serie di tragedie: dalla morte del padre nel campo di concentramento, all’abbandono della madre, poi l’espulsione dall’università per essersi rifiutato di frequentare le lezioni militari. Tutto questo non può che essere stato profondamente traumatico. Così lui si è rifiutato di crescere e di prendere sul serio il suo ruolo o quello di chiunque altro. Poi ha trovato un gruppo di persone con cui poteva stare. Ma anche qui non sarà stato semplice. Lui era alto, di bell’aspetto, molto intelligente, colto, spiccava ovunque andasse, la gente si sarà sentita minacciata o attratta da lui, nessuno poteva rimanere indifferente.

Anche il suo ritrovato cattolicesimo è un gesto un po’ astruso. Non sarebbe stato più normale chiedere accoglienza nella Chiesa ortodossa russa? Avvertiva che il mondo è perso e che l’uomo da solo non ha controllo sul suo destino. Senza dubbio sentiva il bisogno di una consapevolezza assoluta, una certezza assoluta, e questo doveva essere il suo sentimento religioso. Considerava l’eroismo come un’assurda posizione di resistenza di fronte all’inevitabile. La vita è irrazionale e il bere dà accesso a questa dimensione. Ci sono cose che non puoi controllare, quindi puoi solo cedere loro, perché non sei davvero libero di agire. Come la maggior parte degli intellettuali dell’Europa dell’Est odiava l’idea di un mondo organizzato razionalmente. Il suo atteggiamento era che la realtà fosse totalmente assurda, e bisognava sottomettersi e seguirla ovunque ti porti, pur rimanendo fedele a te stesso.

L’ultima parte del film riguarda la sua scoperta e valorizzazione. Siccome Erofeev era stato pubblicato, qualcosa di positivo doveva essere detto su di lui. È diventato, improvvisamente, socialmente significativo, rispettabile politicamente e moralmente. Chiaramente, è la più grande di tutte le ironie. Tra le testimonianze, nel film c’è anche quella del Segretario del Partito Comunista di Petuski che tenta di tracciare un profilo di Erofeev. Veramente non molto riuscito. Ad un certo punto non è più in grado di andare avanti, non sa che dire. Probabilmente perché non lo ha mai letto, come confessano altri. Sotto la perestroika, l’outsider intransigente e il derisore del mondo letterario di Mosca si è guadagnato lo status di nuova figura di culto! Tra le ultime inquadrature si vede Erofeev che spiega cosa fosse esattamente il libro: “L’ho scritto per gli amici. Ottanta pagine per farli divertire e dieci per fargli dimenticare l’allegria”. Poi ci sono le immagini di lui ripreso alla première dell’adattamento teatrale, mentre riceve l’applauso del pubblico. Nel finale è a casa sua. La macchina da presa si allontana piano dal suo volto, si sente in sottofondo la sua voce che legge questo brano:

“E se un giorno morirò, morirò molto presto, lo so, morirò senza aver accettato questo mondo, avendolo compreso da vicino e da lontano, avendolo compreso da fuori e da dentro, ma senza averlo accettato, morirò, e Lui mi chiederà “Sei stato bene lì? Sei stato male?” E io starò zitto, abbasserò gli occhi e starò zitto, e questo mutismo lo conoscono tutti quelli che cercano una via d’uscita da un lungo e pesante anticiclone. Perché la vita umana non è forse un breve ciclone dell’anima? E anche un’eclissi dell’anima. È come se tutti noi fossimo ubriachi, solo ognuno per conto suo, uno ha bevuto di più, l’altro di meno, e a ciascuno fa un effetto diverso: uno ride in faccia a questo mondo, l’altro piange tra le braccia di questo mondo, uno ha già vomitato e adesso sta bene, l’altro comincia solo adesso ad avere il vomito. E io, cosa ho fatto io? Io ho assaggiato molta roba, ma non mi ha mai fatto effetto, e non ho riso neanche una volta come si deve, e non mi è mai venuto il vomito. Io, dopo aver assaggiato questo mondo tante di quelle volte da averne perso il conto e il senso, io sono il più sobrio di tutti a questo mondo, mi va semplicemente stretto. “Perché taci” mi chiede il Signore, tutto circondato da dei fulmini blu. E cosa gli rispondo? Faccio così: “Taccio, taccio….”

Letture

Venedikt Erofeev – Mosca sulla Vodka

Mi è capitata questa edizione del 1977, ma in commercio se ne trova un’altra più recente con il titolo Mosca Petuski poema ferroviario probabilmente più appropriato. Perché si tratta anche di un trattato sull’alcool, e questo gli conferisce l’aspetto comico, però sta di fatto che la vodka non è altro che una veste gettata addosso a qualsiasi cosa di cui si voglia parlare, attraverso un punto di vista esasperato, imprevedibile, carico di violazioni delle connessioni logiche, dove tutto è percepito in modo pervasivo, desolante e buio. Non è dunque assurdo indagare su questo allucinato viaggio da Mosca a Petuski, come anche cercare nella vita sregolata di questo scrittore trascurato dalla critica ufficiale. Nell’apparente bizzarria ci sono molti elementi che presuppongono una cultura viva e profonda, che rimandano alla conoscenza degli archetipi dell’inconscio, alle suggestioni filosofiche e religiose, a tanta poesia, musica, scienze.

Un mio conoscente diceva che la Koriandrovaja (vodka al coriandolo) agisce sull’uomo in modo antiumano, ovvero: rinvigorendo tutte le membra indebolisce l’anima. Chissà perché, a me invece è successo il contrario, ossia l’anima si è rinvigorita in sommo grado e le membra si sono indebolite, ma ammetto che anche questo è antiumano.”

Come ogni venerdì, Venicka compie il viaggio da Mosca a Petuski (cittadina che dista dalla capitale 100km) con il treno elettrico. Petuski è il posto dove gli uccelli non tacciono né di giorno né di notte, dove il gelsomino non sfiorisce né d’inverno né d’estate, dove il peccato originale, se veramente c’è stato, non tormenta nessuno. Dove quelli che non smaltiscono la sbornia per settimane hanno lo sguardo limpido. Laggiù alle undici precise lo aspetta una ragazza, la diavolessa dalle ciglia chiarissime e un bambino che già conosce la lettera “U”. Per questo porta con sé, in una valigia, i regali per loro: bottiglie di vodka, di vino rosatello e noci per il bambino.

Venicka è un fannullone le cui passioni lottano contro il dovere e la ragione. Dialoga con gli angeli, cita Puskin, Gogol, Block, Corneille, Turgenev e Goethe. Possiede un’anima ammalata che da quando ha coscienza di sé non fa altro che simulare la sanità mentale. Trova che tutto ciò di cui gli altri parlano e tutto ciò di cui si occupano, lo lascia indifferente. Senza affermare di conoscere la verità, ma di essersi ad essa molto avvicinato, la contempla con un misto di dolore, paura e mutismo che lo porta a bere vodka. Descrive questa melanconia universale invitando ad osservare il quadro “Il dolore inconsolabile” di Kramskoj e chiede: “Se davanti a quella principessa, un gatto avesse fatto cadere una coppa di porcellana di Sevres….lei cosa avrebbe fatto? Mai si sarebbe agitata, perché per lei era una sciocchezza, perché lei in quel momento stava al di sopra di qualsiasi Sevres…frivola e noiosa… precisamente come me.

Il dolore inconsolabile. Ivan Nikolaevič Kramskoj 

Il registro semiserio lo usa anche quando riferisce della sofferenza che prova al pensiero della grossolanità degli altri “E quelli, invece, bevono con la coscienza della propria superiorità sul mondo… A me nuoce molto la mia delicatezza, che mi ha mutilato tutta la giovinezza, tutta l’infanzia e l’adolescenza…o piuttosto no, piuttosto non si tratta di delicatezza, ma semplicemente che ho dilatato all’infinito la sfera di ciò che è intimo; e quante volte ciò mi ha rovinato.”

Bere per alleggerire l’anima. Bere tanto per imparare a rinvigorirsi. Ne fornisce il metodo: “Dalla prima alla quinta dose (bicchiere) si rinvigorisce, poi dalla sesta alla nona inclusa ci si rammollisce, dalla decima sopraggiunge la sonnolenza, con uno sforzo si beve l’undicesima per vincere il sonno. Come fare a superare l’impasse e andare avanti? Dopo la quinta bisogna bere idealmente la sesta la settima e le successive fino alla nona, d’un fiato solo, ma solo con l’immaginazione…con uno sforzo di volontà passare direttamente alla decima ed esattamente come la NONA SINFONIA di Dvorak che di fatto è la nona ma viene detta la QUINTA, esattamente bisogna fare così…. bisogna chiamare decima la sesta dose e sicuramente si rinvigorisce senza impedimenti fino alla ventottesima (trentaduesima)… seguono la follia e la deboscia.”                                          Oltre al metodo, delucida anche sulle composizioni di cocktail, assurdi e disgustosi, combinati con qualsiasi liquido, purché emanino miasmi “Si aggiunga al profumo birra, deodorante per i piedi, acqua dentifricia, soluzione antiforfora e vernice purificata. Soprattutto la vernice purificata…. Chissà perché in Russia nessuno sa di cosa sia morto Puskin, mentre chiunque sa come si purifica la vernice per i mobili.”

Certo, si potrebbe obiettare, nel mondo oltre la vodka c’è la psichiatria “…C’è anche l’astronomia extragalattica, ma tutto questo non è roba nostra riguarda gli americani e i tedeschi, come la corrida riguarda gli spagnoli e il bel canto gli italiani. Noi russi ci occupiamo del singhiozzo, bisogna rispettare ogni vocazione.”

A un certo punto del racconto si mette a indagare tra i compagni di viaggio, per scoprire chi gli ha rubato dalla valigia la mezza bottiglia di vodka Rossijskaja che aveva avanzato. I ladri sono nonno e nipote, due poveracci che si mettono a piagnucolare. Le sue reprimende contro le loro scuse sono un capolavoro: “Io vi capisco, sì. Io posso capire tutto se voglio perdonare…. La mia anima è come la pancia del cavallo di Troia, può contenere molto. Io perdono tutto se voglio capire. E io capisco…. Bene , basta lacrime. Io, se voglio capire, ho posto per tutto. Io non ho una testa, ma una casa di tolleranza.” La compassione è come l’amore non c’è differenza. La compassione e l’amore per il mondo sono indivisibili.

E a proposito dell’amore, la molteplicità di emozioni che gli provoca la “diavolessa” Una tentatrice, che non è una ragazza, ma una ballata in la bemolle maggiore, sono descritte  nella rievocazione del loro primo incontro. La narrazione è quella di uno sprofondamento, di un cortocircuito di pensieri e di sensazioni provate. Riferisce dei ragionamenti fatti sul perché di questa attrazione ed anche dello spavento sempre provato nei confronti delle donne. “Da una parte mi piaceva che (le donne) avessero il vitino di vespa; ciò mi destava languore…. ma, dall’altra parte, esse hanno sgozzato Marat…e Marat era incorruttibile e non bisognava sgozzarlo. Questo già uccideva in me il languore. Da una parte in esse mi piaceva, come a Carlo Marx, la loro debolezza, ossia che sono obbligate a pisciare sedendosi alla turca; quello mi piaceva… Ma sì mi riempiva di languore. Ma dall’altra parte, esse hanno sparato con una pistola contro Lenin! E questo uccideva il languore: se vuoi accucciarti alla turca, fa pure, ma perché sparare contro Lenin? Dopo una cosa del genere sarebbe ridicolo parlare di languore.”

Questo modo di raccontarsi autodenigrandosi, ha un fondamento eversivo. La realtà è grezza, brutale e drammatica. Allora la parlata di strada, il torpiloquio, l’affronto, l’auto-avvilimento, sono una provocazione. L’immagine che dà di sé, fondata sulla farsa, sui funambolismi che sfidano e capovolgono ogni sistema, che mettono in dubbio ogni autorevolezza, più la presa di distanze dal presente, sono l’affermazione che la vita ordinaria va distrutta. Questo è il senso del delirio allucinato finale. A conclusione, la perdita di controllo razionale è esaltata da incontri inverosimili. Con la Sfinge che lo interroga su cinque enigmi irrisolvibili. Con un maggiordomo e la principessa del “Dolore inconsolabile” che lo inquietano. Con le Erinni che volano squassando il vagone. Con Mitridate re di Ponto con il naso colante di moccio che gli trafigge i fianchi con un coltellino. Con l’operaio e la contadina del monumento della Muchina sulla Prospettiva Mira di Mosca che lo colpiscono con la falce e il martello. Con quattro assassini che lo inchiodano come Gesù. In quest’ultimo atto, dalla sfumatura religiosa, forse si può rintracciare il tentativo di trovare l’accesso a una vita più autentica.

Il manoscritto di questo romanzo, redatto su un quaderno, cominciò a girare tra amici e conoscenti. Venja Erofeev lo utilizzava come merce di scambio, cedendolo per cinque rubli che gli servivano per comprarsi una bottiglia di vodka, poi se lo faceva restituire. A un certo punto, per fortuna dopo che ne erano state stampate alcune copie battute a macchina, il quaderno sparì. Perduto. Ma, all’insaputa di Erofeev, nel 1973 uscì pubblicato da un editore di Gerusalemme. Ignorato dalla critica fino a dopo la sua morte, avvenuta per un tumore alla gola nel 1990, divenne un mito. Nello stesso anno la BBC gli dedicò un documentario e nel 2000 Mosca gli eresse un monumento, raffigurante lui alla stazione Kurskij, e la sua diavolessa in quella di Petuski. Oggi sono entrambi in un giardinetto della capitale.

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Elaine Feinstein – Anna di tutte le Russie

Ad appellarla “Anna di tutte le Russie” è stata Marina Cvetaeva. L’ammirava così tanto da dedicarle un intero ciclo di sue poesie che, raccontò a Mandelstam, l’Achmatova portava con sé in una borsetta fino a quando non si ridussero in brandelli. Quest’ultimo particolare è stato smentito dall’Achmatova che pure la riconosceva come sua pari, anche se aveva riserve sulla violenza delle sue emozioni, sulla crudezza espressiva e sul modo di esporre totalmente la sua vita interiore. Entrambe sono fra i maggiori poeti del Ventesimo secolo. Diverse per temperamento, controllata e riservata l’Achmatova, incauta e iperemotiva la Cvetaeva, rappresentano due modi di espressione poetica. Il richiamo classico, il rigore, l’asciuttezza, la prima; l’impulso a inventare forme nuove, sintassi difficile, con salti di significato, lineette e punti esclamativi, la seconda. Non furono amiche, si frequentarono poco, ma in comune hanno il dolore e l’angoscia per i propri cari imprigionati e le sofferenze per i drammi cui la vita le ha sottoposte.

Achmatova scrisse la sua prima poesia a undici anni. Il padre non gradiva che lei scrivesse perché temeva di essere disonorato, allora lei, che di cognome si chiamava Gorenko, decise di darsi lo pseudonimo “Achmatova”, cognome tataro di una principessa sua antenata che sposò Khan Akhmat, discendente di Gengis Khan.

Anche il resto della famiglia non l’apprezzava molto. La sorella Ija considerava le sue poesie frivole, invece la madre reagiva con maggior sensibilità, ma quando leggeva i versi scoppiava in lacrime ed esclamava “Non so, capisco solo che la mia povera figlia sta male”.

Come fanno a volte le persone considerate strane, Anna cominciò a ritenersi speciale, dava valore a episodi che sembravano preannunciarle un destino particolare. Era nata la notte del 23 giugno, vigilia di San Giovanni, così, pensava, aveva acquisito poteri magici. Era sonnambula e le persone accanto a lei erano preoccupate perché qualche volta camminava sull’orlo del tetto.

All’inizio le sue poesie trattavano temi intimi, le relazioni tra uomo e donna. Dalla prima guerra mondiale amplia i temi alle sofferenze del suo paese, alla tristezza, alla fede cristiana. Nel 1916 Mandelstam dichiarò che la poesia dell’Achmatova era divenuta una gloria per la Russia.

Coinvolta in tutti gli eventi cruciali del 900, rivoluzione, guerra, tirannia di Stalin, il suo coraggio fu messo a durissima prova. Ancor più difficile risultò quando il primo marito e il figlio furono rinchiusi nel gulag, quando non le veniva permesso di pubblicare e di poter vivere senza l’aiuto dei fidati amici. Nel ’22 comincia la messa al bando della sua poesia. Il critico Ejchenbaum scrisse: “Qui possiamo vedere gli inizi della paradossale o, più correttamente, contraddittoria doppia immagine dell’eroina per metà prostituta che brucia di passione e per metà suora capace di chiedere perdono a Dio”. Sulla Pravda Lev Trockij scrive: “Il circolo lirico dell’Achmatova, della Cvetaeva, della Radlova è molto ristretto. Egli [Dio] è un invitato molto opportuno…. non si capisce come trovi il tempo per dirigere i destini dell’universo, dato che è solo, non più giovane, e oberato da tutti quei fastidiosi incarichi di carattere privato”.

Anche la sua vita sentimentale è stata irrequieta come tutti gli altri ambiti della sua esistenza. Tre mariti, un numero indefinito di amori, tradimenti, ripicche, ma anche senza disagi o particolari inquietudini quando succedeva di dover soccorrere, dati i tempi precari, i famigliari dell’amante di turno, magari andando a conviverci.

Nel 1926 le fu commissionata ufficialmente una ricerca sull’opera di Puskin, cui si dedicò con una particolare eccentricità. Su Puskin scriveva analisi erudite e oggettive, ma allo stesso tempo parlava di lui come se lo avesse conosciuto personalmente, ed era evidente che provava gelosia per la moglie Natalja. Questo non è stato l’unico coinvolgimento passionale; esaminava attentamente anche le donne di Shakespeare, come se le frequentasse dal vivo. “Desdemona è affascinante ma Ofelia è un’isterica”.

Majakovskij si era espresso negativamente sulla poesia dell’Achmatova che considerava  un cimelio del passato. Una volta lesse in pubblico “Il re dagli occhi grigi” sulla melodia di un motivetto popolare.                                                                   Nel ’33 non potendo più pubblicare poesie si mise a studiare Dante insieme a Mandelstam leggendolo in originale. Parlando di se stessi, tutti e due i poeti erano concordi nel ritenere che le loro poesie nascevano da una frase musicale che a un certo punto cominciava a suonare insistentemente all’orecchio.

Nel 1935 vennero arrestati sia Punin (terzo marito) che Lev Gumilev (figlio suo e del primo marito). L’Achmatova scrisse una supplica direttamente a Stalin, cosa che fece anche Pasternak. Questi due appelli ebbero risultato, lo dimostra la risoluzione scritta di propria mano da Stalin sulla lettera dell’Achmatova. Il rilascio colse di sorpresa Punin, che aveva chiesto di poter restare in cella fino al mattino seguente, per poter andare a casa in tram.

Dal 1933 al 1938 sono gli anni del terrore staliniano. Stalin aveva detto all’NKVD, odierno KGB, che chi era arrestato per tradimento o per essere seguace di Trockij, doveva essere fucilato immediatamente, mentre i personaggi più in vista subivano un processo farsa. A Gorki, nelle grazie di Stalin, poiché malato e depresso poco gli si faceva sapere, al punto che, in occasione della persecuzione al suo amico Kamenev, furono stampate delle copie finte della Pravda solo per lui.

Il poema “Requiem” è riferito ai giorni di prigionia del figlio Lev, versi che l’autrice non poteva scrivere e che imparò a memoria ai Kresty, la prigione di Leningrado, dove rimane in fila per ore insieme ad altri familiari, nella speranza di avere notizie del figlio. “Negli anni terribili della ezovscina (grandi purghe) ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando) : -Ma questo lei può descriverlo?- E io dissi: -Posso-.

Lev Gumilev diventò un antropologo, uno dei padri fondatori della concezione moderna di una Russia eurasiatica, la quale rigetta qualsiasi tentativo di introdurre valori dell’Europa occidentale nei cosiddetti stati eurasiatici. Questa teoria, già preesistente, da lui sviluppata negli anni Sessanta, si basa sul postulato che fra gli stati eurasiatici e quelli occidentali c’è una differenza incolmabile, che si può superare solo con la vittoria di una parte sull’altra.

Lei e Pasternak erano amici e lui in più occasioni l’aveva aiutata, specie nei riguardi del figlio e correndo dei rischi. Lei però non era certa che lui l’apprezzasse davvero e se gli piacessero le sue poesie o se avesse letto qualcuna di quelle scritte prima del ’40. Inoltre le dispiaceva che ne “Il Salvacondotto” le avesse dedicato solo qualche paragrafo lodando la sua semplicità, mentre al genio della Cvetaeva aveva dedicato molte pagine. Il giudizio dell’Achmatova sul “Dottor Zivago” era che trovava bruttissime alcune pagine, e quello che la infastidiva di più era il loro tono predicatorio. Elogiò invece molto la descrizione dei paesaggi:” Non c’è niente di simile in tutta la letteratura russa, né in Turgenev né in Tolstoj.” Una volta lui le confidò di dover scrivere poesie per poter dare i soldi alla sua amante Ol’ga Ivinskaja. Lei, che detestava quella donna, gli strillò che era una fortuna per la cultura russa che lui avesse bisogno di soldi. Comunque, quando lui litigava con la moglie, prendeva il treno per Leningrado e dormiva dall’Achmatova, sul pavimento.

Brodskij nei primi anni ’60 frequentò a lungo l’Achmatova quando lei alloggiava nella dacia a Komarovo. “Conversando con lei, o semplicemente bevendo tè o vodka, diventai cristiano, un essere umano nel senso cristiano della parola”. Brodskij rimase sempre più interessato alla Cvetaeva, come poeta, ma provava per lo spirito dell’Achmatova un rispetto sempre più profondo. Nel circolo dei giovani poeti che frequentavano la dacia, si leggevano le poesie e si discuteva molto, si beveva anche parecchio. Racconta Brodskij: “Lei era una bevitrice formidabile. Se c’è qualcuno che sapeva bere, questi sono l’Achmatova e Auden. Tutte le sere dava una strigliata a me o a qualcun altro, accompagnandosi con una bottiglia di vodka. Naturalmente c’era qualcuno che non lo sopportava, ad esempio Lidija Cukoskaja (che viveva con l’Achmatova e l’accudiva). Al minimo segno del suo arrivo la bottiglia veniva nascosta…. Quando gli astemi se ne andavano, si riprendeva la bottiglia da sotto il tavolo”.

A partire dalla seconda metà degli anni ’50 all’Achmatova, completamente riabilitata, vengono assegnati importanti incarichi e riconoscimenti in patria e fuori. Nel 1964 viene insignita del premio Etna-Taormina, un importante premio letterario. Come succedeva ai russi, dovette aspettare per diversi mesi i documenti di viaggio. Lei ne era divertita: “Che cosa pensano, che poi non voglia tornare? Sono rimasta qui quando tutti se ne andavano, ho vissuto in questo paese tutta la vita per cambiare tutto adesso?” Viaggiò in treno, prima soggiornò a Roma, poi in Sicilia. Alla serata di gala si lessero le sue poesie, i poeti invitati, tra cui Arsenij Tarkovskij, lessero poesie a lei dedicate. Fu proiettato “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini. Al suo albergo arrivarono molti ammiratori e lei, mostrando il senso dell’ospitalità russa, tirò fuori dalle valigie caviale, vodka, prosciutto e pane nero per tutti.

Achmatova era considerata una donna molto bella. Alta, magra, elegante nel portamento, capace di ipnotizzare gli ascoltatori quando leggeva le sue poesie con la sua voce affascinante. Alcuni pittori la ritrassero e riuscirono a rendere quella particolare padronanza di sé, come fece Natan Al’tman

Anche in fotografia non sfugge la sua nobile compostezza. A me personalmente piace moltissimo in questa foto di Moisei Nappelbaum

E in quest’altra.

Consci che siamo inermi

e nulla possediamo

che ogni cosa è persa

_così che ogni giorno

è anniversario di memoria_

sulla nostra passata ricchezza

e sulla grande munifica dea

abbiamo iniziato a comporre

canzoni. (1915)

Il miele selvatico sa di libertà,

la polvere del raggio di sole,

la bocca verginale di viola,

e l’oro di nulla.

Ma noi abbiamo appreso per sempre

che il sangue sa solo di sangue… (1933)

Cinema, Letture

Ariaferma

Ariaferma significa condizione sospesa. In questa attesa, nel procedere della narrazione, il continuo ricorso all’allerta verso i pericoli causati da situazioni nuove e ignote, è necessario per provocare l’intensificazione emozionale, per sviluppare l’esercizio di avvicinamento attraverso la compassione, unica disposizione che motiva ad agire con un approccio genuino. (C’è del buono nel cinema italiano) ✅

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John Berger – Ritratti

Sistemate in ordine cronologico, John Berger si occupa di una serie di opere artistiche a partire dalle pitture rupestri della grotta di Chauvet, fino ai disegni di Randa Mdah, artista siriana nata nel 1983. Interpreta e valuta adottando diversi criteri: secondo la conformità della prassi alla teoria, sulla forza del disegno, la luminosità del colore e la concordanza con un ideale formale; finalizzando l’opera a esiti emozionali o affettivi, facendo leva sulla forza persuasiva; equiparando qualità con autenticità. Sempre tenendo conto che, la finalità estetica di un’opera appartiene al proprio tempo che sempre esercita influenza sulla cultura e i suoi orientamenti. Per seguire questo precetto, riporta molte notizie documentarie attorno alle vicende che riguardano la vita dell’artista, come componenti della sua cultura, come processi attraverso i quali l’opera si è formata. Per conseguenza, considera anche il suo stesso giudizio variabile nel tempo. Valutare solo i fattori visivi o le forme, prescindendo il tempo, il luogo, i fatti, equivarrebbe a nasconderne il messaggio. L’artista ri-crea nell’opera la sua esperienza del mondo. L’opera, stimolando il processo della percezione, ha il potere di attrarre altre idee, altri significati, di sollecitare associazioni nuove nei fruitori, i quali, osservando, riconoscono qualcosa di preesistente e mediante un’identità di spirito, ripercorrono una forma di mistero. Quasi tutti i “ritratti” del libro iniziano con un’analisi, a volte fatta con ragionamenti inediti, qualche ripensamento, per poi condursi, attraverso il coinvolgimento emotivo, verso il racconto di fatti personali, verso una poesia, uno scambio epistolare, sovrapposizioni di immagini, anacronistici parallelismi, esami sulla politica attuale.

Caravaggio è l’emozione di raccontare il sentimento che prova verso la donna amata…Quando sei lontana, per me sei comunque presente. Questa presenza è multiforme: consiste di innumerevoli immagini, paesaggi, significati, cose note, punti di riferimento, eppure l’insieme rimane marcato dalla tua assenza, in quanto è diffusa. È come se la tua persona diventasse un luogo, i tuoi contorni orizzonti. Allora vivo in te come se vivessi in un paese. Sei ovunque…Una sera a letto mi hai chiesto chi è il mio pittore preferito. Ho esitato, in cerca della risposta meno studiata e più veritiera. Caravaggio. La risposta ha sorpreso anche me. Ci sono pittori più nobili di lui e anche pittori con una visione più ampia. Ci sono pittori che ammiro di più e che sono più ammirevoli. Ma non c’è nessuno a quanto pare -visto che la risposta mi è venuta spontanea- a cui mi senta più vicino.

Rembrandt… La prima volta che ho visto “Il cavaliere polacco”, mi è parso che potesse trattarsi del figlio di Rembrandt, l’adorato Titus. Mi sembrava -e continua a sembrarmi-  un dipinto che parla dell’andarsene di casa….Amo il dipinto del “Cavaliere polacco” come potrebbe amarlo un bambino, perché è l’inizio di una storia raccontata da un vecchio che ha visto molte cose e non vuole mai andare a dormire… Amo il cavaliere come potrebbe amarlo una donna: la sua audacia, la sua insolenza…. A volte la consuetudine equestre è ancora visibile nei corpi e nel modo in cui si muovono (i polacchi). Il gesto di mettere un piede nella staffa e di lanciare verso l’alto l’altra gamba mi viene in mente mentre sono seduto in un bar pizzeria di Varsavia e guardo gli uomini e le donne che in vita loro non hanno mai montato o neppure toccato un cavallo, e stanno tutti bevendo una Pepsi-Cola…. Amo “Il cavaliere polacco” come potrebbe amarlo un cavaliere che ha perso la sua cavalcatura e a cui ne è stata regalata un’altra. Il cavallo donato è un po’ vecchiotto, i polacchi a un ronzino del genere danno il nome di szkapa, ma è un animale di provata fedeltà. Infine amo l’invito del paesaggio, da qualunque parte conduca.

Vermeer…Le grandi rivelazioni avvengono tutte prima dei venticinque anni. Forse perché le aspettiamo con tanta avidità. Rilke fu il primo poeta europeo moderno che lessi. Matisse il primo disegnatore che capii. Impossibile separare la mia esperienza delle loro opere dal letto di una ragazza…. Le rivelazioni che avvengono in seguito sono più oggettive. D’un tratto si ha l’impressione di vedere in una nuova luce… Ci si sente in dovere e non, come prima, semplicemente desiderosi di riconoscere ed essere riconosciuti. Tutti, superati i trentacinque anni, cominciamo a spiegare…. Vermeer, che cosa voleva dire nell’immobilità delle sue stanze che la luce riempie come l’acqua colma una cisterna? Qual è il significato delle donne al tavolo e alla finestra che la luce rivela? Perché possiamo sentirci così vicini a loro, i nostri occhi che assorbono ogni intima goccia di luce (come se, osservando, asciugassimo delicatamente le superfici umide), e al contempo essere così distanti da loro?…. Era in grado di ritrarre con precisione impareggiabile ciò che costituiva il singolo istante perché aveva una consapevolezza acutissima, oggettiva e senza ombra di nostalgia del fatto che ogni istante vissuto è irripetibile… Di fronte a una donna di Vermeer che puntualmente gira la testa, legge una lettera, versa il latte, si prova una collana allo specchio, alza un bicchiere, ci accorgiamo proprio dello scorrere del tempo.

Géricault…. Dietro ogni cosa che immaginava e dipingeva si avverte lo stesso voto: lasciatemi guardare in faccia la sofferenza, lasciatemi scoprire il rispetto e, se possibile, trovare la bellezza…. Géricault aveva molto in comune con Pasolini                                                                                          

mi sforzo a capire ogni cosa, ignaro

come sono d’altra vita che non sia

la mia, fino perdutamente a fare

di altra vita, nella nostalgia,

piena esperienza: sono tutto pietà,

ma voglio che diversa sia la via

del mio amore per questa realtà,

che anch’io amerei caso per caso, creatura

per creatura.

I ritratti dell'”Assassino folle” o del “Cleptomane”, sono il primo esempio di chi ha guardato in faccia così a lungo e con tale intensità qualcuno che era stato classificato e condannato come pazzo…. Ci sono periodi storici in cui la follia si mostra per quello che è: un’afflizione rara e anormale. In altri periodi -come quello in cui siamo appena entrati- si direbbe che la follia sia comune… Nel corso della storia..ogni forma di afflizione è diventata, in un certo senso, il promemoria di una speranza. Qualsiasi dolore attestato, condiviso o sofferto restava naturalmente dolore, ma poteva essere in parte trasceso se lo si percepiva come sprone a compiere maggiori sforzi in vista di un futuro che ne fosse privo. L’afflizione aveva avuto uno sbocco storico! E durante questi due secoli tragici, perfino la tragedia era considerata latrice di una promessa. Oggi le promesse sono diventate sterili…Non c’è posto per la pietà nell’ordine naturale del mondo che opera in base alla necessità. Lo guardiamo con indifferenza, non lo conosciamo. È matto. Non ci si può fare niente.

Renoir….Suo figlio, il regista cinematografico Jean Renoir, ha scritto un libro notevole sui suoi ricordi d’infanzia. Vi si trova questa conversazione con il padre: “Di chi è questa musica? – Di Mozart- Che sollievo. Per un istante ho temuto che fosse di quell’imbecille di Beethoven…il modo in cui Beethoven parla di sé è francamente indecente. Non ci risparmia il minimo dettaglio delle sue pene d’amore o sul suo mal di stomaco. Ho avuto spesso una gran voglia di dirgli: che cosa me ne importa se sei sordo?“.                                                             Non c’è niente di più semplice che ridicolizzare un’epoca passata, e non c’è niente di più ridicolo. Non è per nostro merito se oggi siamo più vicini a Beethoven. È troppo facile applicare retrospettivamente a Renoir (a Picasso, aggiungo io) il ragionamento femminista….

Van Gogh…. Per un animale ambiente naturale e habitat sono un dato; per l’uomo la realtà non è un dato (nonostante gli empiristi). Essa va di continuo cercata, trattenuta, sono tentato di dire “salvata”. Ci viene insegnato a contrapporre reale e immaginario, come se il primo fosse sempre a portata di mano e il secondo distante, remoto. Questa contrapposizione è falsa…La realtà, comunque la si interpreti, si trova al di là di uno schermo di cliché. Ogni cultura produce tale schermo, in parte per facilitare le proprie pratiche e in parte per consolidare il proprio potere. La realtà è nemica di chi ha potere. Tutti gli artisti moderni hanno pensato che le loro innovazioni offrissero un approccio più intimo alla realtà…. È qui che l’artista moderno e il rivoluzionario si sono talvolta trovati fianco a fianco, ispirati entrambi dall’idea di abbattere lo schermo dei cliché.

Bacon… L’assenza di alternativa, nella sua visione della condizione umana… Il suo progresso, in trent’anni, è di ordine tecnico e consiste nel mettere sempre più a fuoco il peggio..Bacon ha osservato la crudeltà del mondo, dipingendo più e più volte il corpo umano o parti del corpo umano in pena, in preda al bisogno o in agonia…L’arte è piena di omicidi, esecuzioni o martiri…nella visione di Bacon, è che non ci sono testimoni né dolore….Per tutta la vita, di questa sua visione non fregava niente a nessuno. Eppure il mondo crudele che Bacon evocava e tentava di esorcizzare si è rivelato profetico. Può succedere che, nel giro di cinquant’anni, il dramma personale di un artista rifletta la crisi di un’intera civiltà.. Quello che segue, Berger lo ha scritto nel 2004. Tanto per rientrare nel discorso della profezia, della lungimiranza o più semplicemente, del vedere chiaramente dove conducono certe posizioni….L’attuale epoca storica è l’epoca del Muro. Dopo la caduta del muro di Berlino, sono stati srotolati i progetti preparati per costruire muri da ogni parte. Muri di cemento, burocratici, di sorveglianza, di sicurezza, razzisti, zone cuscinetto. Dovunque i muri separano chi è disperatamente povero da chi spera contro ogni evidenza di continuare a essere relativamente ricco. I muri incidono ogni sfera, dal lavoro agricolo alla salute. Esistono anche nelle metropoli più ricche del mondo. Il muro è la prima linea di ciò che, molto tempo fa, si chiamava”guerra di classe”. Da un lato: ogni armamento concepibile, il sogno di guerre senza un solo sacco di plastica per i cadaveri, i media, l’Abbondanza, l’igiene, il glamour per tutti. Dall’altro: le pietre, i viveri scarsi, le faide, le malattie dilaganti, l’accettazione della morte e la continua preoccupazione di come sopravvivere un’altra notte. Oggi dunque la scelta di senso nel mondo è tra le due facce del muro. Il muro è anche dentro ciascuno di noi. Quale che sia la nostra condizione, siamo liberi di decidere con quale lato del muro ci sentiamo in sintonia. Non si tratta di un muro tra il bene e il male. Bene e male esistono da entrambe le parti. La scelta è tra rispetto di sé e caos di sé. Dalla parte dei potenti c’è il conformismo della paura -loro il muro non lo dimenticano mai-  e le labbra che si muovono come per dire parole che non significano nulla. Bacon ha dipinto esattamente questo mutismo.

Pollock….Immaginate un uomo allevato in una cella bianca fin dalla nascita, tanto che non ha mai visto altro che la crescita del proprio corpo. E poi immaginate che d’improvviso gli vengano dati alcuni bastoni e delle vernici brillanti. Se fosse un uomo con un innato senso dell’equilibrio e dell’armonia dei colori, potrebbe, coprire le pareti bianche della sua cella come Pollock ha dipinto le sue tele. Vorrebbe esprimere le sue idee e i suoi sentimenti riguardo alla crescita, al tempo, all’energia, alla morte, ma non disporrebbe di un vocabolario di immagini viste o ricordate con cui farlo. Non avrebbe altro che i gesti che scoprirebbe applicando i suoi segni colorati alle pareti bianche. Potrebbe trattarsi di gesti appassionati e frenetici, ma per noi non significherebbero altro che il tragico spettacolo di un sordomuto che tenta di parlare.

Nicolas de Staël… Per tutta la sua breve vita si è misurato con il cielo e le sue luci…I cieli mutano non solo di ora in ora, e, da una stagione all’altra, ma anche da un secolo all’altro. Cambiano in base al tempo atmosferico, e in base alla storia. Ciò accade perché il cielo è come una finestra e uno specchio, una finestra affacciata sul resto dell’universo, e uno specchio per gli eventi terreni che sotto a esso hanno luogo. I cieli di El Greco riflettono le cospirazioni della Controriforma e dell’Inquisizione spagnola, tanto quanto quelli di Turner riflettono il tumulto della Rivoluzione industriale. Nessuno osserva il cielo reale per più di un istante senza esprimere un desiderio che ha a che vedere con qualche paura o speranza attuale.

Michael Quanne….Qualsiasi pittore professionista impara un dato linguaggio pittorico, e questo linguaggio -quando lo si vede da una grande distanza- è sempre limitato perché è stato sviluppato per esprimere e soddisfare certe esperienze e non altre. Ogni forma d’arte è intimamente connessa a un tipo di esperienza di vita. La differenza tra musica da camera e jazz non riguarda la qualità, l’eleganza o il virtuosismo, ma due stili di vita, che le persone coinvolte non hanno scelto ma in cui sono nate. Il mestiere acquisto da un apprendista nello studio di Gainsborough era ideale per dipingere piume e raso e inutilizzabile per dipingere una Pietà.

Juan Munoz. Nel 2001, a soli quarantotto anni, Munoz muore. Per il “ritratto” da dedicargli, Berger non analizza una sua opera, compone un’associazione. Determinato non dalla somiglianza ma da un modo di porsi, di affrontare e sfidare la vita, dedica all’amico scomparso il ricordo (forse immaginato) dell’incontro con il poeta Nâzim Hikmet e un racconto di impressione  ..Quando si racconta una storia, tutto dipende da che cosa segue che cosa. L’ordine più autentico è di rado ovvio. Si scopre a forza di tentativi. Spesso facendo e disfacendo. Ecco perché sul tavolo ci sono anche un paio di forbici e un rotolo di nastro adesivo. Lo scotch non è inserito in uno di quegli aggeggi che permettono di tagliarlo facilmente nelle dimensioni desiderate. Devo usare le forbici. Il difficile è trovare la fine del nastro per srotolarlo. La cerco impaziente con le unghie e m’innervosisco. Sicché, quando la trovo, la appiccico al bordo del tavolo, lascio che il nastro si srotoli fino al pavimento, e lo abbandonò lì a penzolare. A volte esco sulla veranda e mi sposto nella stanza accanto, dove chiacchiero, mangio o leggo il giornale. Qualche giorno fa ero seduto in questa stanza quando qualcosa, muovendosi, ha attirato il mio sguardo. Una minuscola cascata d’acqua luccicante scendeva, ondeggiando, verso il pavimento della veranda vicino alle gambe della mia sedia vuota davanti al tavolo. I torrenti alpini cominciano così. A volte un rotolo di scotch agitato da uno spiffero della finestra può muovere montagne.

Basquiat….Di solito, per contestare le falsità da cui si è avvolti, si ricorre a contro-informazioni che portano alla luce le verità tenute nascoste… Basquiat ha capito che le menzogne non possono essere descritte con nessuno dei linguaggi utilizzati di continuo… La sua strategia di pittore era screditare e fare a pezzi tali codici, lasciando affiorare qualche verità invisibile, clandestina. Il suo stratagemma di pittore è affine a certe forme di rap… Compita il mondo in un linguaggio deliberatamente stentato, ontologicamente stentato… Si è inventato un alfabeto visivo tutto suo composto da innumerevoli segni: lettere, loghi, sagome, diagrammi, emblemi, figure geometriche… così non può entrare in nessun registro ufficiale. I dipinti sono espressivi, li si può ammirare, ricordare, trovano risposta in un altro dipinto, ma sono innominabili. La loro nitidezza celebra l’invisibile, per conseguenza nessuna menzogna può intrappolarle, sono liberi.

Randa Mdah…. In vita mia non ho mai visto disegni come quelli che sto osservando (Lead on paper). Quel che li rende senza precedenti è, almeno per me, l’esperienza di vita di cui sono impregnati. Non la descrivono e non la illustrano, ne sono semplicemente colmi… Che tipo di esperienza è quella di cui sono colmi questi disegni? È una forma di resistenza, abituale, comune e inesauribile. Una resistenza granitica. Una resistenza in ogni corpo che circola come flusso sanguigno. Le mani e le linee dei corpi misurano i battiti della resistenza dell’anima. La percezione di resistenza, forza, energia, fanno riaffiorare alla memoria due fatti accaduti qualche tempo prima. In visita alla tomba del poeta Mahmud Darwish, che si trova su una collina vicina a Ramallah, Berger racconta di essersi seduto sul prato, dove è successo qualcosa di inaspettato e di simile a un caso accadutogli pochi giorni prima. Era in macchina insieme al figlio, nevicava… All’improvviso un uccello ha urtato il parabrezza. Era un uccellino, un pettirosso, stordito ma ancora vivo, che sbatteva le palpebre. L’ho tolto dalla neve, era caldo nella mia mano, molto caldo. Ogni tanto lo esaminavo. Nel giro di mezz’ora è morto. L’ho sollevato per metterlo sul sedile posteriore dell’auto e la sua leggerezza mi ha sorpreso. Pesava meno di quando lo avevo raccolto dalla neve. L’ho passato da una mano all’altra per esserne certo. Era come se la sua energia da vivo, la sua lotta per sopravvivere, si fossero sommate al suo peso. Adesso non pesava quasi nulla. Quando mi sono seduto sull’erba della collina è successo qualcosa di simile. La morte di Mahmud aveva dissolto il suo peso. Quel che restava erano le sue parole.

Berger possiede la capacità di liberare le immagini e determina, con il suo esempio, un metodo da acquisire per permettere alle opere di lavorare su di noi. Ogni opera racchiude una trama da svelare. Chi la osserva ne è assorbito, attratto e interpellato ancora prima di capirne l’intreccio. Unica posizione possibile è interrogarla e interrogarsi, fare ipotesi cercando risposte a quesiti che l’opera pone al suo e al nostro presente, seguire un procedimento associativo, provando a identificarsi. Quest’esperienza diretta di condividere le profonde connessioni dell’arte con l’esperienza umana, agisce come intuizione. Poiché non si guarda solo con gli occhi, il punto non è solamente “cosa hai fatto”, ma anche “chi sei”. Un artista non ha l’obbligo di condurre una vita esemplare, tuttavia il comportamento che ha mantenuto in alcuni frangenti della sua vita o la sua condotta morale, non sempre possono essere disgiunti dalla sua opera. Per quanto ogni giudizio vada contestualizzato e ogni fatto vada interpretato in una prospettiva storica, succede, e per ognuno di noi con motivazioni diverse, che s’imponga dalla coscienza una resistenza che non si riesce a ostacolare. Personalmente ho resistenze oppositive che mi portano a sentirli incompatibili con me, per George de La Tour e William Turner. Verso Turner per “colpa” di un film. Mike Leigh nel 2014 ha diretto un film biografico su Turner. Il film, fotograficamente eccellente, ha messo in luce le caratteristiche più basse del pittore, la brutale materialità, aspetti (anche quello fisico) quasi animaleschi. Un anaffettivo totalmente disinteressato alla vita degli altri, reso così fortemente dal suo interprete che, anche il povero Timothy Spall, l’attore che lo impersona, mi è oramai insopportabile qualsiasi ruolo interpreti. Purtroppo le fonti storiche confermano l’assoluta attinenza del Turner cinematografico con quello reale: era davvero un gretto misantropo e la suggestione ricevuta dal film ancora oggi agisce su di me. Guardare un quadro di Turner non mi impedisce di coglierne la grandezza, di ammirarne la luce e il colore, ma l’inquietudine e il disorientamento che mi provocano le sue “Bufere” così violente, sono la sua stessa implicita violenza.

Quando ero incinta di mio figlio, un’amica mi imprestò un libro che all’epoca andava molto di moda. Era la guida al parto scritta dal ginecologo francese Frédérick Leboyer. Il libro era corredato da molte immagini di quadri di de La Tour: Adorazione, Natività, Il Neonato. Tutte splendide. I colori rossi, i bruni e i dorati, sono resi spettacolari da una impareggiabile esposizione della luce. Tutte scene notturne, con personaggi assorti, madri in contemplazione del bambino che dorme sereno, la cui delicatezza emerge dal buio, visibile per il bagliore della fiamma di una candela. I protagonisti sono sempre persone semplici, contadine o mendicanti, lo sguardo compassionevole che gli rivolge, tuttavia mal si concilia con i fatti della vita di La Tour. Dopo un ricco matrimonio andò a vivere nella città della moglie, dove ebbe successo, guadagnò molti soldi e divenne un proprietario terriero facoltoso e influente. Durante la guerra dei Trent’anni fece tanti guadagni speculando sul grano durante le carestie. Da documenti d’archivio si sa che dovette pagare le cure mediche a un contadino che aveva aggredito, e altri fatti lo fanno inquadrare come ambizioso, violento e spregiudicato. Allora, queste armoniose visioni che il lume della candela rende vaghe, al limite tra apparenza e illusione, cosa sono davvero? Sono la perfezione formale cui aspirava La Tour? Una soluzione personale, al di là del vero “senso” da attribuire agli altri esseri umani, cui egli non ha saputo dare risposta, o l’interpretazione magica dei sogni più belli di una mamma in attesa?

Letture

Thomas Bernhard -Goethe muore

  Quattro contesti in cui pochi elementi si uniscono, si allontanano, ritornano, si ripetono, per riaffermare i suoi giudizi di sempre: il fallimento, la tirannia dei genitori verso i figli, l’odio e il disgusto verso l’Austria. Quattro racconti dove il flusso del discorso è travolgente e le sue ossessioni sono espresse dalle parole: desolazione, spaventosa ottusità, orribile, deturpazione, sgomentante, volgare, falso, abietto, bruttezza, instupidita, annientato, perversione, disgustosa, fetida, ridicola, esiziale. Malgrado ogni suo scritto sia uno “sfogo” per liberarsi dalla sofferenza e le provocazioni sono dette per colpire, più risulta feroce e intransigente, più appare straordinariamente bizzarro e divertente nelle irrisioni. Il pessimismo disperato di Bernhard è spesso frainteso. Le opere di uno scrittore (o di un artista) sono create nella speranza di una tregua, altrimenti dove troverebbe l’energia per crearle?

Goethe muore

Pochi giorni prima della sua morte, a Goethe sarebbero .. giunti da Karlsbad, auguri di pronta guarigione da parte dell’azienda di cura e soggiorno, così pure da Marienbad, mentre dalla bella Ellbogen hanno inviato a Goethe un boccale su cui egli è raffigurato insieme a Wittgenstein. ..Dalla Sicilia si è fatto vivo un professore che abita a Agrigento e che invita Goethe a vedere la sua raccolta di manoscritti goethiani. Goethe ha scritto al professore di non essere più in condizione di valicare le Alpi, benché il loro scintillio gli sia più caro del rumore del mare… A una tale Edith Lafontaine, che da Parigi gli aveva inviato alcune poesie per un giudizio, ha scritto suggerendole di rivolgersi a Voltaire, il quale lo sostituiva nel compito di evadere le lettere dei postulanti letterari. Il proprietario dell’albergo Pupp di Karlsbad si è rivolto a Goethe per chiedergli se lui, Goethe, non volesse acquistare il suo albergo per ottocento talleri -personale escluso, come si usa dire. Per il resto arrivava al Frauenplan giorno dopo giorno solamente l’ordinaria e insulsa posta di sempre…..il buono era che avevamo tante grandi stufe in cui poter gettare quella posta inutile..l’intera Germania, senza eccezioni, pensava d’un tratto di potersi rivolgere a Goethe… Così Goethe riscaldava casa perlopiù con la posta che riceveva.

Per tutto il tempo ho avuto l’impressione, così Riemer, che Goethe, finendo per legarsi a Kräuter, si sia preso come ultimo infermiere un attore del Teatro Nazionale, e ho pensato, davanti allo spettacolo di Kräuter che recitava così la sua parte al fianco di Goethe, premeva sulla fronte di Goethe la pezza umida, se ne stava lì mentre Goethe diceva: io sono l’annientamento di quanto è tedesco!, subito dopo: ma non mi sento affatto in colpa!, spostava la mano di Goethe, poiché lui stesso non aveva più la forza per farlo, un po’ più in alto sulla coperta, seguendo il proprio senso estetico, di Kräuter s’intende, così Riemer, e tuttavia senza che le mani di Goethe risultassero congiunte come quelle di un morto, cosa che perfino Kräuter trovava di cattivo gusto.

Montaigne

Alla mia famiglia e dunque hai miei torturatori ero sfuggito trovando scampo in un angolo della torre e prima…avevo preso dalla biblioteca un libro che… si rivelò essere di Montaigne..

.. Sapevano di essere spudorati, cosa che hanno sempre negato, privi di scrupoli, pericolosi per il prossimo. Allora mi hanno, per così dire, accusato di veridicità. Ma se di quando in quando, sempre per dire la verità, dicevo che sono belli, intelligenti, allora mi accusavano di mendacio. Così per tutta la vita mi hanno accusato ora di veridicità ora di mendacio, e molto spesso di veridicità e mendacio insieme, e in fondo è da una vita che mi accusano di veridicità e di mendacio, così come io stesso li accuso da una vita di mendacio e di veridicità. Posso dire quello che voglio, loro mi accusano o di veridicità o di mendacio e spesso non sanno nemmeno bene se mi stanno accusando di veridicità oppure di mendacio, così come molto spesso neanche io so bene se li sto accusando di mendacio oppure di veridicità, perché nel mio meccanismo accusatorio, che nel frattempo è già diventato una sindrome accusatoria, non riesco più a distinguere se si tratta di verità o di menzogna, così come loro non riescono più a distinguere verità è menzogna nei miei confronti…

…Io non ho mai avuto un padre e non ho mai avuto una madre, ma ho avuto sempre il mio Montaigne. I miei procreatori, che mi rifiuto di chiamare padre e madre, mi hanno ripugnato fin dal primo momento, e io ho tratto molto presto le conseguenze di questa ripugnanza e mi sono buttato dritto dritto fra le braccia del mio Montaigne, la verità è questa. Montaigne, ho sempre pensato, ha una grande, immensa famiglia filosofica, ma tutti questi membri della sua famiglia filosofica io non li ho mai amati più del loro capostipite, il mio Montaigne.

Incontro

… i nostri genitori, i quali andavano in montagna due volte all’anno e sempre ci costringevano ad andare in montagna con loro…. loro mi sollecitavano a dire che lassù in vetta regnava la quiete assoluta e così, per porre fine alle loro intimidazioni, io dicevo che lassù in vetta regnava la massima quiete, l’assoluta quiete…. Poiché ci eravamo accoccolati in un angolino riparato dal vento mia madre poté staccare dallo zaino la cetra e suonarla. Aveva sempre suonato male la cetra, a differenza di mia nonna, che sapeva suonarla come nessun altro, e quella volta sulla vetta la suonò in modo catastrofico, ho detto. Papà la investì perché la piantasse di suonare la cetra, ho detto, dopodiché staccò dallo zaino la tromba e ci soffiò dentro. Ma il vento scompigliava selvaggiamente le note della sua tromba e ben presto gli fece passare la voglia di suonarla. Infilò la tromba fra due lastre di roccia e si fece tagliare dalla mamma due grossi tocchi di pane su cui mise lui stesso varie fette di prosciutto. Anche a me diedero da mangiare, ma io non riuscii a mandare giù un solo boccone, come si suol dire. Una tale quiete, disse più volte mio padre. Il vento divenne ben presto tormenta, ho detto, e noi credevamo di dover morire assiderati sul posto… La tormenta era un buon segno, disse mio padre, ho detto. L’ascensione era durata otto ore…la tormenta faceva un tale frastuono che a malapena udii mio padre dire: che quiete regna quassù….

Tornati dall’alta montagna, ricevevo la vera punizione per il mio comportamento…. Se a mio padre non riusciva uno dei suoi disegni, dava la colpa a me, ho detto, mi ero frapposto tra lui e la luce, diceva, o con una qualche parola che gli avevo rivolto avevo distrutto una sua intuizione, come era solito esprimersi lui. Comunque ero sempre e soltanto il distruttore della sua natura di artista. Il figlio è al mondo soltanto quale distruttore dell’artista che suo padre è… E finché mio padre era vivo, io non ho scritto nemmeno una riga, ho detto. E solo quando è morto ho abbozzato uno schizzo del suo volto senza vita, ho detto. Quello schizzo mi è riuscito bene. Ma poi per anni non sono più stato capace di nulla.

Andata a fuoco

Oslo è una città noiosa e la gente lì è priva di spiritualità e per nulla interessante, come probabilmente tutti i norvegesi, ma questa è un’esperienza che ho fatto solo più tardi, quando mi sono spinto fino all’altezza di Murmansk. Una razza canina a tutt’oggi totalmente sconosciuta nell’Europa centrale, il cosiddetto Schauffler, è la sola cosa che ho scoperto lì, oltre al fatto che il cibo è pessimo e il gusto norvegese in materia d’arte è abominevole. Un paese totalmente negato per la filosofia, in cui ogni forma di pensiero soffoca in tempi brevissimi. Mi sono cimentato in un ospizio a Mosjøen, una cittadina di povera gente in cui gli abitanti ammazzano la noia suonando il pianoforte; a quanto si dice una famiglia su due a Mosjøen possiede un pianoforte, io stesso, nella casa in cui ho trascorso o meglio superato la prima notte, ho visto e sono stato costretto ad ascoltare un Bösendorfer a coda totalmente scordato che perfino la musica più melensa, di Schubert per esempio, suonata su quello strumento risultava interessante; grazie ai loro pianoforti scordati gli abitanti di Mosjøen e, come presumo, i norvegesi in generale si ritrovano ad avere sul serio un’idea della cosiddetta musica moderna oggi, più o meno automaticamente dunque, come posso affermare, giacché loro stessi non lo sospettano neppure.

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Nina Berberova – Il corsivo è mio

Tra il 1960 e il 1966 Berberova scrisse questo libro che parla di persone e di fatti accaduti quarant’anni prima. Lo definisce, libro di memorie, non autobiografia. La distinzione è sostanziale, dice lei stessa, un’autobiografia è egocentrica, mentre le memorie sono il racconto degli altri. Tuttavia succede che anche le memorie parlino più dell’autore che non delle persone di cui si narra. Non a caso, racconta di quella volta che lesse un saggio intitolato “Tre incontri con Lev Tolstoj”. “Il primo incontro: l’autore arriva a Jasnaja Poliana, ma Tolstoj è ammalato. Il secondo incontro: arriva a Chamovniki e lo informano che Tolstoj non è in casa. Il terzo incontro: arriva a Astrapovo e Tolstoj è appena morto. Di Tolstoj non appresi nulla, ma quanto imparai sull’autore!” Anche leggendo questo libro si apprendono molte cose su di lei. Il suo intento era quello di scrivere la storia della letteratura russa del primo Novecento attraverso i suoi protagonisti, perlopiù coloro che hanno fatto parte della prima emigrazione russa (1917/40). Lo fa in modo particolare. Nulla da dire sulla prosa, le si riconosce il merito di saper elaborare con metodo ricco e solido. Invece suscitano perplessità le descrizioni dei personaggi. Tutti sono rappresentati mediante tratti che ne delineano la fisionomia fisica, psicologica e comportamentale. Quasi tutti, come figure che, nel rapporto con l’autrice, costituiscono difficoltà e antagonismi. Spessissimo racconta fatti, o riporta parole, per indicare nelle persone, valori e idee in cui non si riconosce. Poiché si tratta di persone morte da tempo, ha il vantaggio di non preoccuparsi di dover rispondere a proteste o smentite, perciò queste storie e i protagonisti, risultano condizionati dal giudizio della sua particolare ottica: parziale e soggettiva. Molti dei nomi sono noti solo agli specialisti di letteratura russa, ma ne coinvolge talmente tanti che alla fine del libro ci sono ottanta pagine di regesto con una nota per ognuno.

Nel racconto, l’approccio agiografico al “grande” le è estraneo (il che non è un difetto, anzi, ma..), perciò scrive su Pasternak o su Cvetaeva senza la minima riverenza. Accenna direttamente alle inclinazioni lesbiche di Cvetaeva e senza cautela scrive: “L’isolamento di cui scrisse nella sua grande poesia “Il corno di Orlando” ha rivelato dopo molti anni la sua immaturità: l’isolamento non è, come si pensava una volta, la peculiarità di una persona che sta sopra gli altri, l’isolamento è l’infelicità dell’uomo, sia psicologica che ontologica, di colui che non è arrivato a quel punto di maturazione che gli permette di unirsi al mondo. Questo isolamento diventò sempre più tragico, perché con gli anni sentì il bisogno di unirsi agli altri e forse solo alla fine maturò, dopo aver capito che un essere umano non può restare emarginato per anni. Se questo avviene, è colpa sua e non dell’ambiente. Il poeta e il suo dono, il poeta su un’isola deserta, il poeta nella sua torre d’Avorio, tutte immagini seducenti che celano la silente, pericolosa e mortifera assenza tematica…. In lei stessa, nel suo atteggiamento verso le persone e il mondo era già celata la sua fine…. Chodasevic una volta mi disse che Marina Cvetaeva da giovane gli faceva venire in mente EseninUna volta li sognai, penzolavano, soli, dondolavano dal loro cappio.”

Di Pasternak dice di amare alcune poesie, peraltro non le sembrano neanche tanto interessanti:“Nascondeva l’essenza dei suoi versi, si tratta di poesia emotiva e non conoscitiva. Si reagisce attraverso l’udito o la vista senza che sia necessario approfondire nulla… arzigogoli di parole che non hanno a che fare con il tema principale.” Lo ritiene dotato d’ingegno ma non maturo. “Dottor Zivago” lo considera goffo, artificioso e non compiuto.

Riconosce il talento di un certo numero di scrittori, ma perlopiù ha una bassa opinione di tutti, continuando, sgradevole nei toni, a definirli senza gentilezza.

C’è Belyj: afflitto da tormenti insensati, ubriachezza (un russo, ma dai!), sempre alla ricerca di un padre, si sentiva indifeso, non capiva se stesso. I suoi rapporti con gli altri erano fondati sull’incomprensione. Tormentava i conoscenti con visite tardive e ripeteva fino allo strazio il racconto di una storia d’amore finita da oramai quindici anni.

C’è Sklovskij: definito geniale ma uomo fallito, intelligente e ironico, con una testa grossa e un sorriso che metteva in mostra le nere gengive(!).

Berberova a vent’anni subisce la diaspora. A Parigi, lontano dal proprio paese e dai propri familiari, vive in povertà. Descrive questa esperienza dell’esilio insistendo sulla povertà e sull’isolamento dalla vita culturale francese, attribuendo tale alienazione, a una generale indifferenza degli intellettuali francesi, aggravata dalla moda filosovietica diffusa nei circoli letterari parigini. La scrittrice esiliata descrive nelle sue memorie la sua situazione di solitudine, ansia, fallimento in arte e nella vita. Lo fa con l’enfasi del martirio, secondo il modello del maestro pensatore russo, profeta solitario, la cui eroica abnegazione e il rifiuto dei compromessi, lo ha escluso dalla vita collettiva, e si sente disprezzato o deriso. “Quanto odio provava Ladinskij per quella città! Una sera camminavamo insieme per rue Vaugirard… all’improvviso si fermò e disse -Come odio tutto questo, i loro negozi, i loro monumenti, le loro donne, la loro lingua, la loro storia e la loro letteratura… Ciò nonostante, secondo il calcolo più modesto, il mondo intero si è nutrito di tutto questo per circa trecento anni… Qui mi hanno calpestato. E hanno calpestato anche lei-. Cercavo di spiegargli che quell’essere calpestati non era il risultato di una nostra casuale sfortuna personale. Era il risultato di una catastrofe nazionale in cui eravamo implicati”. Quindi lei stessa, con tono piccato, prosegue e si raffronta così: “Sono state scritte decine di libri di memorie sugli anni Venti e Trenta. Era bello essere a Parigi, essere giovani e poveri. Ma il giornalista americano che aveva deciso di farla finita con il suo giornale di Chicago per scrivere un romanzo che nessuno avrebbe pubblicato, oppure il pittore svedese, che aveva deciso di non adeguarsi al gusto del pubblico e di dipingere per sé, oppure il musicista dei Caraibi che suona la sega e aveva spezzato ogni legame con il suo paese non essendo d’accordo con il governo….erano tutta gente che non poteva essere paragonata a noi, avevano deciso di restare, ma sarebbero anche potuti partire… noi eravamo uno strano mucchietto di persone che, pur non potendo per ragioni d’età essere stati né banchieri, né governatori, né generali dello zar, chissà perché non erano d’accordo con quello che succedeva in patria…. Hemingway nelle sue memorie racconta della sua vita a Parigi. Di quegli anni, dei soldi che per i suoi racconti arrivavano quando capitava, dei sessanta franchi al giorno che davano la possibilità di vivere a due persone, modestamente, ma in modo passabile, e anche di andare da qualche parte, a Saint Lys, a Fontainebleau, sulla Loira”. Berberova comparando dice che, quando le girava benissimo, raggranellavano in due trenta o quaranta franchi, e che ogni imprevisto era un problema.

Dopo la seconda guerra mondiale, rimasta sola, Berberova lascia la Francia “che esigeva sottomissione”, per l’America “che non poteva esercitare pressioni”. Qui, entrata nella vita americana, diventa professoressa di letteratura russa in prestigiose università e pubblicando i suoi libri, ottiene la fama che desiderava. A sessant’anni si dice pronta per l’inevitabile, scrive queste memorie anche per interrogarsi sul significato della sua esistenza e fa precedere il racconto da questa descrizione di sé: “Sono libera di vivere dove e come voglio, di leggere ciò che voglio, di pensare a tutto ciò che voglio, come voglio, e di ascoltare chi voglio. Sono libera nelle vie delle grandi città, dove nessuno mi vede… posso sapere tutto quello che voglio sapere e posso dimenticare quello che non mi serve”.

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Brani

A Natasha, amica e compagna di classe, svela il suo segreto più segreto, quello che si vergogna a svelare. Le confida che non le piace Eugenij Onegin. “Perché dovrebbe piacere? Dapprima Tatjana si innamora senza aver scambiato due parole con quella persona, soltanto per il suo aspetto (fatuo, annoiato, vuoto), poi si sposa con un pingue generale soltanto perché glielo chiede la madre. Quindi Tatjana confessa a Onegin di amarlo ma lo respinge: che giochetti antiquati e irresponsabili. Natasha mi osserva accigliata e domanda: -Ma questo ti sembra così importante? Non è poi lo stesso? L’importante è che “Il suo bavero di pelliccia di gelo s’è inargentato”. L’importante è come si incatenano gli enjamblements da un verso all’altro, da una strofa all’altra. È il linguaggio! È l’ironia! È Puskin!”.

Sull’immanenza della fine, osserva le morti di Puskin e di Tolstoj. “Se Tolstoj avesse lasciato la sua casa dopo “Le confessioni” sarebbe morto da uomo libero, superiore alla sua religione moraleggiante. Se Puskin avesse abbandonato la moglie, si è appreso recentemente per l’apertura dell’archivio delle lettere che lei amava D’Anthes, non sarebbe stato vittima della sua stessa aberrazione. Puskin aveva costruito la sua vita, senza sospettare che ai suoi tempi non poteva più sussistere una fedeltà dovuta dal fatto che una donna era stata data in moglie. Puskin morì per una donna, senza capire cos’è una donna, lui che le conosceva così bene! Tatjana Larina si vendicò”.

Sulle persone. “Dopo aver vissuto la mia lunga vita incontrando gente, facendo amicizia con le persone… Mi sono resa conto che ci sono persone esauribili in una serata (in una settimana, in un anno) e ce ne sono altre che sono invece inesauribili, perché dentro di loro succede sempre qualcosa, qualcosa si muove, funziona, si agita, sparisce e riappare di nuovo”.

Sulla creazione artistica. “Stravinskij, in una delle sue interviste riguardanti la creazione artistica, la definisce un processo fisiologico: quando compone si sente come un maiale che cerca il tartufo o come un’ostrica che crea una perla. Confessa che ogni tanto gli cola la saliva per i suoni e l’armonia che sta riproducendo sulla carta, e che ogni creazione artistica è per lui un lavoro degli organi di secrezione interna. Il suo risultato è quanto è stato secreto. Tutto ciò che è inghiottito viene digerito, assimilato, secreto, e anche la creazione artistica è senz’altro un atto fisiologico”.

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Viktor Sklovskij – Zoo o lettere non d’amore.

Quando Sklovskij scrive questo libro (1923) si trova esule a Berlino. La storia e tutti i personaggi descritti sono reali. Zoo, perché a Berlino gli emigrati russi abitavano nel quartiere vicino allo zoo. Lettere non d’amore, perché la destinataria non ricambia il sentimento. Lei impone che non le sia chiesto di vederla e neppure di chiamarla per telefono. Scriverle sì, ma non d’amore. Malgrado ciò, la storia raccontata in questo romanzo epistolare, trova la sua motivazione nell’amore. L’autore, seguendo l’intimazione, con un complesso sistema di combinazioni, rielabora il suo intento (parlare d’amore) dando importanza alle divagazioni e alle descrizioni inessenziali, inattese quanto interessanti, utilizzando toni che variano dall’ironico al dissacrante, dal nostalgico all’amoroso, dal serio al divertito. Sono artifici che variano il contesto, ma non sono altro che metafore dell’amore. Sono elementi che utilizza per proporci una nuova visione delle cose. Sono i modi del Formalismo. Acrobazie per riorganizzare i modi dell’opera letteraria. Servendosi della tecnica del montaggio combina insieme la fiaba, l’opera teatrale, la corrispondenza, la trattativa critica. Vari sono i temi: discetta su Don Chisciotte o sui personaggi di Tolstoj, utilizza i riferimenti biblici per un’analogia con i pantaloni con la piega, spiega che le automobili con il motore elettrico sembra non abbiano cuore, propone descrizioni nostalgiche della Russia, parla dell’emigrazione russa attraverso i ritratti che fa dei suoi protagonisti. C’è quello dolente del poeta Chlebnikov -” ..La vita è sistemata bene, come un nécessaire, ma non tutti riescono a trovarvi il proprio posto al suo interno. La vita tenta di adattarci gli uni agli altri e ride quando noi siamo attratti da chi non ci ama”. Quello dell’etnografo Bogatyrev dalla personalità spiccatamente singolare, il quale, emigrato a Praga, non riusciva a reggere un altro modo di vivere, diverso da quello russo -“… Scoppiò in lacrime…e non era scoppiato in lacrime per sentimentalismo, ma così, come piange un vetro in una stanza che viene riscaldata dopo tanto tempo”. Quello meraviglioso di Pasternak, che fa spiccare la lettera diciassette tra le più belle -” Il tuo racconto sul transatlantico era bello. Dopotutto, io sono un salvadanaio per le tue parole. Tu mi hai raccontato che su una nave del genere si percepisce sempre la sua forza di trazione. Non il movimento in sé, ma proprio la trazione, l’andatura e la potenza dell’andatura. Per un automobilista questo è comprensibile. Tutte le automobili hanno una trazione diversa. Una buona auto fa pressione sulla tua schiena in modo molto piacevole, come il palmo di una mano, e ti spinge….Non ho mai visto un transatlantico. Ma mi piace e lo capisco. Deve essere molto bello danzare su un pavimento che si muove e, quando i pensieri restano un po’ indietro rispetto al movimento (come fa il cuore su un’ascensione che scende), baciarsi e pensare…..Una volta tua sorella si trovava alla Casa della Stampa, a Mosca….Era seduta accanto a Pasternak, Boris. Lui parlava come al solito, lanciando fiumi di fitte parole ora in una direzione, ora nell’altra, ma senza dire l’essenziale. La parola essenziale. E lo stesso Pasternak era così bello che ora lo descriverò. La sua testa robusta, forte, sembrava una pietra a forma di uovo, il petto ampio, gli occhi castani. Marina Cvetaeva dice che Pasternak somiglia contemporaneamente ad un arabo e al suo cavallo. Pasternak si precipita sempre da qualche parte, ma non in modo isterico, lui avanza come un cavallo forte e focoso. Lui va al passo, ma vorrebbe andare al galoppo, lanciando le gambe in avanti, lontano. Dopo molte parole incomprensibili, Pasternak disse a tua sorella: “Sapete, è come se fossimo su una nave”. Quest’uomo grande e felice, in mezzo a persone in paltò che masticavano panini al bar della Casa della Stampa (il che è ridicolo e anche un po’ triste), sentiva la trazione della storia. Lui sente il movimento, i suoi versi sono meravigliosi per la loro trazione, le loro righe si piegano e non riescono a stendersi, come barre d’acciaio, si ammassano l’una sull’altra, come i vagoni di un treno che ha frenato improvvisamente. Bei versi. Un uomo felice. Non sarà mai irritato. Deve vivere la sua vita amato, viziato e grande. A Berlino Pasternak è inquieto. È un uomo di cultura occidentale, quanto meno la capisce, è vissuto anche precedentemente in Germania; con lui adesso c’è la sua giovane, bella moglie, tuttavia è molto inquieto. E non per cercare di dare finitezza alla mia lettera, dirò che mi sembra che, in mezzo a noi, lui senta l’assenza di trazione. Noi siamo profughi, no, non profughi, siamo fuggitivi, ed attualmente siamo in posizione d’attesa. Per il momento. Non va da nessuna parte la Berlino russa. Non ha destino. Nessuna trazione. Lo percepisco così distintamente! Forse ti attirano persone straniere, inglesi, americani, forse con noi ti annoi, perché anche tu percepisci tutto ciò. Queste persone hanno una trazione meccanica, la trazione di un transatlantico, sul cui ponte è bello ballare lo shimmy. Noi perdiamo le nostre donne. È ora di pensare a noi stessi. Noi uomini siamo motori a combustione interna, il nostro compito è portare al traino. La trazione della rivoluzione è passata. Per il ponte non abbiamo scarpe da ballo”.

Combinando la realtà con la finzione, inserisce anche le sorprese: intrufola una lettera cancellata con due righe rosse, comandando a chi legge, malgrado la consideri la più bella, di non leggerla.

L’ultima lettera è invece una supplica dal tono molto serio, affinché gli amici in patria intercedano per il suo rientro in Russia. Una continuità di sovrapposizioni di pensieri rapidi, per raccontare, citare, smitizzare, e giocare con il lettore.

Nella prefazione a un’edizione successiva, dirà che quel passato appartiene a un vecchio io non più riferibile a quello attuale. Più avanti ancora, in un’altra prefazione, scriverà sempre nel suo stile apparentemente semplice, la conclusione del suo tormento. – “Ho settant’anni. La mia anima giace dinnanzi a me. È tutta segnata dalle pieghe del tempo. Quel libro, già allora, l’aveva piegata. Io l’ho raddrizzata. Hanno piegato l’anima la morte degli amici. La guerra. Le dispute. Gli errori. Le offese. Il cinema. E la vecchiaia, che nonostante tutto, è sopraggiunta. Ora, mi è più facile, perché non conosco i luoghi per i quali cammini, non conosco i tuoi nuovi amici, o i vecchi alberi presso il tuo mulino. La memoria si è allontanata in cerchi concentrici. I cerchi sono giunti sino alla spiaggia scogliosa. Il passato non esiste più. I cerchi, gli anelli dell’amore se ne sono andati sulla spiaggia. Non resterò seduto vicino al mare, non aspetterò il bel tempo, non chiamerò il mio pesciolino dalle efelidi dorate. Non resterò seduto, di notte, vicino al mare, non attingerò acqua col mio vecchio cappello di feltro marrone. Non dirò: “Mare, rendimi gli anelli”. Ho persino fatto notte ad aspettare. Sono sparite dal cielo le stelle imperscrutabili. La sola Venere, stella principale della sera e del mattino, è riapparsa in cielo. Fedele all’amore, amo un’altra. Il mattino, nell’ora in cui si può già distinguere un filo bianco da uno azzurro, pronuncio la parola: Amore. Il sole si è riversato nel cielo. Il mattino della canzone non può avere fine, solo noi ce ne andiamo. Vediamo attraverso il libro, così come sull’acqua, quanti valichi ha attraversato il cuore, quanto sangue e quanto orgoglio (elementi del cosiddetto lirismo) sono sopravvissuti al passato.”

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Sergej Dovlatov – Taccuini

“Il narratore orale agisce a livello della voce e dell’udito. Il prosatore a livello del cuore, della mente e dell’anima. Lo scrittore a livello cosmico. Il narratore orale parla di come vive la gente. Il prosatore di come dovrebbe vivere. Lo scrittore del motivo per il quale vivere”. Dovlatov utilizza la misura breve della narrazione che è legata alla narrazione orale. I Taccuini contengono miniature, ovvero: racconti brevi, aforismi, aneddoti, parodie. “Solo per Underwood” (dal nome della sua bianca macchina da scrivere) quelli raccolti tra il 1967 e il 1978 a Leningrado. “Solo per IBM” quelli trascritti a New York tra il 1979 e il 1990 anno della sua morte. A prescindere dall’ironica contrapposizione, pretecnologico/mondo informatico americano, entrambe le parti riguardano la Russia e i suoi protagonisti sono gli amici, i parenti, gli scrittori, gli artisti, i politici sovietici. Le raffigurazioni riguardano la cultura russa e soprattutto l’universo sonoro della lingua russa che per Dovlatov era l’unico riferimento identitario. “Ci credi, io a volte grido persino: Oh, Signore! Che onore! Che grazia immeritata: io conosco l’alfabeto russo!”. Se in URSS il suo entusiasmo era andato verso la letteratura americana, in esilio aveva scoperto che la sua letteratura lo interessava di più.

Dovlatov annotava su un quadernetto, da cui non si separava mai, qualsiasi cosa gli paresse emblematica della forza rappresentativa della parola e gli rivelasse, magari attraverso un dettaglio, aspetti curiosi dell’incongruenza umana. Potevano essere commenti, frasi riferite da altri, brevi aforismi, giochi verbali, parodie umoristiche di canzoni o di poesie celebri russe. In alcuni casi veniva smascherato il conformismo verbale delle istituzioni sovietiche, in altri l’uso improprio del turpiloquio, oppure la divertente incongruenza tra personaggio e registro. Così ha realizzato un affresco del periodo appena antecedente il crollo dell’URSS, anche se niente di ciò che scrive va considerato “vero” in senso cronachistico. Rielabora i testi secondo il criterio dell’autenticità estetica che è lontana dalla realtà fattuale. “I pensieri, le idee e tanto più l’intreccio, sono proprio quello che in letteratura mi interessa di meno. Più di ogni altra cosa mi è caro il lato extra-analitico, la gamma sonora, la struttura cromatica e fonetica, insomma, ciò che di solito chiamiamo fascino inspiegabile”. Una frase detta da qualcuno veniva modificata e messa in bocca a un altro per ottenere un effetto esteticamente più interessante, questo ha provocato reazioni di offesa nelle persone menzionate con i loro nomi autentici. Ma la digressione soggettiva era una predilezione che assecondava la tradizione letteraria russa, secondo cui la digressione poteva assumere una funzione estetica dominante rispetto a quella puramente narrativa. Nei Taccuini emerge anche la dimensione “corale”. Per Dovlatov la storia dei singoli e la storia del suo paese erano connesse. Dai frammenti emerge la stranezza di un mondo surreale, pervaso di drammaticità, e per ritrarre l’incongruità che percepiva, Dovlatov ricorre all’umorismo paradossale. Riso e pianto, insensatezza e divertimento. L’umorismo dovlatoviano evidenzia la capacità di sentire empaticamente la bizzarria e la complessità delle relazioni umane, e di smascherare la rigidità del “senso comune”. Il senso comune non ha nulla a che vedere con il buon senso. Quest’ultimo prevede il coraggio di emanciparsi dai dettami della maggioranza, il senso comune è parte dei dettami rigidi della maggioranza che s’impone e domina sui singoli individui. L’empatia umoristica verso le buffe incoerenze umane, era vista da Dovlatov non solo per deridere ma anche per compiangere il perbenismo compiacente dell’uomo sovietico. Dovlatov non era banalmente anticomunista, diceva: “Dopo i comunisti più di tutti detesto gli anticomunisti”. L’anticomunismo lo considerava un regime assai simile, entrambe forme imposte che portano all’appiattimento del senso critico, per asservire il pensiero individuale all’autorità degli uni o degli altri. Per combattere il nemico si poteva finire per assomigliargli molto. L’umorismo era dunque il salvifico sorriso dell’intelletto, con cui un singolo individuo può dissociarsi dai luoghi comuni del pensiero. Scopo dello scrittore non è quello di destrutturare le idee altrui, ma di legittimare l’incertezza e la diffidenza. In tal senso, la concezione artistica di Dovlatov, può essere definita “poetica del dubbio”. Quelle di “buon senso” erano battute argute, raffinate, inarrestabili che l’elite leningradese esibiva sorprendendo i suoi interlocutori. Al tempo stesso dovevano suonare naturali, eleganti, equilibrate, con uno stile ricercato, tanto che non era un caso che proprio Leningrado fosse divenuta l’emblema della resistenza spirituale alle imposizioni ideologiche del regime sovietico. Per Dovlatov l’estetica del linguaggio era l’essenza stessa della letteratura e l’incessante stilizzazione umoristica, aveva la funzione di tributare dignità rappresentativa all’insensatezza esistenziale. Nel mondo illogico l’umorismo compie un atto di sublimazione e ribellione. Tra i miti negativi dei letterati russi c’era sempre stata la “normalità”, intesa come piattezza, accettazione verso una vita mirata a soddisfare senza sforzo i propri bisogni fisiologici. Nell’immaginario degli artisti sovietici, in modalità differente a seconda dell’orientamento, permaneva l’associazione negativa tra i concetti normalità, folla e regime. Per Dovlatov era certamente insopportabile l’apprezzamento che la massa dimostrava al regime, il quale per ricompensarlo lo nutriva e lo liberava dalle responsabilità sociali, ma percepiva anche, in questa volontà di distinguersi, una vena di snobismo. Per lui il genio non è ostile alla folla ma alla mediocrità. La novità di Dovlatov risiede proprio nello sguardo bonariamente autoritario, nella capacità di barcamenarsi con umorismo tra mania di grandezza e autocommiserazione, cercando di guardare con clemenza ed empatia. Aveva chiaramente compreso che i sogni umani sono inversamente proporzionali all’immagine di sé, per questo aveva avuto il coraggio di accettare che la vera autonomia critica stesse nella capacità di rivolgere lo sguardo indagatore soprattutto verso se stesso: “Negli anni settanta ero un letterato con enormi pretese e la mia ambizione era inversamente proporzionale alle possibilità concrete. La mancanza di possibilità mi autorizzava a considerarmi un genio incompreso….In Occidente, per me, non è emerso che io sia un genio e alcune illusioni sono svanite”. C’è uno stretto legame tra i Taccuini e le altre opere di Dovlatov. Alcuni frammenti si ritrovano innestati in altri libri. L’innesto non è una mancanza di idee, anzi, esprime l’importanza della progettazione, della ricorsività espressiva che riconduce un’opera a un’altra e rivela una ricerca formale. Lo stesso principio vale per quando parodiava e rivisitava i versi classici russi. Aveva sperimentato un collage o mosaico, producendo immagini nuove, associazioni differenti. Non si tratta di autocitazionismo ma di ibridazione sperimentale. Come in musica quando la stessa sequenza di note viene innestata in un’altra composizione, o nelle arti figurative un segmento decorativo o un elemento tematico sono trasferiti da un’opera ad un’altra. Qualsiasi esperienza di scrittura era per Dovlatov letteratura, un accurato lavoro sulla lingua, su ogni parola, su ogni sillaba. Persino un bigliettino qualsiasi era scritto con impegno e questo atteggiamento reverenziale verso la scrittura era alla base della sua etica professionale, nella convinzione che un artista, se è davvero tale, lo sia sempre.

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“Io e mio cugino ci svegliamo da una sua amica. La sera prima avevamo bevuto molto. Siamo in condizioni pietose. Vedo che mio cugino si è alzato e si è lavato. Sta in piedi davanti allo specchio e si pettina. Gli dico: -Possibile che tu stia bene? -Sto malissimo. -E ti fai bello? -Non mi sto facendo bello, -risponde mio cugino, -Non mi sto facendo bello, sto preparando la salma.

“L’unica verità contenuta nei quotidiani sovietici è nei refusi: -Il cago supremo (invece di capo). -Il peto bolscevico ( invece di veto). – I comunisti inculano la dottrina del Partito ( invece di inculcano). Eccetera

“Mia moglie dice: -Tutti hanno dei complessi e tu non fai eccezione. Tu hai il complesso della mia inferiorità.

“A novembre Grubin mi aveva proposto di festeggiare insieme l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, mi pare fosse il sessantesimo. Gli avevo risposto che quel giorno avrei sospeso le bevute: perché onorare quell’evento? Lui allora mi ha detto: -Semmai è non bere che sarebbe un onore. Perché mai proprio oggi dovremmo metterci a non bere?

“Una volta mio padre mi dice: -Io sono vecchio, ho avuto una lunga vita da artista e ho conservato un ricchissimo archivio. Voglio lasciarlo a te. Contiene materiali rarissimi, la corrispondenza con Mejerchol’d, con Tolubeev, con Sostakovic. Gli chiedo: -Tu ti scrivevi con Sostakovic?! -Certo, -dice mio padre, -Eccome! Avevamo una corrispondenza artistica, ci scambiavamo idee, opinioni. -In quali circostanze? -gli chiedo io. -Durante la guerra, quando eravamo sfollati, lavoravo a qualcosa e Sostakovic scriveva le musiche. Nelle lettere discutevamo i vari dettagli. Te le mostro? Dopo aver cercato a lungo nel suo armadio, alla fine mio padre tira fuori una normale cartellina da cui estrae un piccolo foglietto bianco. Con devozione leggo: “Telegramma: Sulle sue osservazioni categoricamente dissento. Sostakovic”.

“Tamara Zibunova aveva acquistato un radiogrammofo marca Estonia. Con l’aiuto di amici l’aveva portato a casa. Sul pianerottolo si ergeva il suo vicino, l’alcolista zio Sasa. Tamara gli dice: -Ecco, zio Sasa, ho comprato un radiogrammofo per neutralizzare il tuo turpiloquio! In risposta, zio Sasa grida improvvisamente: – La verità non puoi neutralizzarla!

“Al Parco-museo di Aleksandr Pushkin i turisti sono molto avidi di informazioni. Alle guide pongono strani quesiti: -Ma chi sarebbe questo Boris Godunov? -Qual è stata la causa del duello tra Puskin e Lermontov? -Il periodo di Boldino si è svolto qui o a Boldino? -Ma Puskin c’è stato da queste parti? -Qual era il patronimico del figlio più piccolo di Puskin? -L’amante di Puskin era anche l’amante di Esenin? A Leningrado, a una guida turistica che conosco, hanno chiesto: -Cosa si trova ora allo Smol’nyj, il Palazzo d’Inverno? E infine una domanda che è totalmente folle: -Dicono che Lenin sapesse nuotare a dorso, è vero?

“Il giovane artista Michail Semjakin era stato dimesso dall’ospedale psichiatrico. Stava tornando a casa ed ecco che incontra suo padre. I suoi erano divorziati. Il padre, valoroso colonnello in congedo, gli chiede: -Da dove vieni, figliolo, dove stai andando? -Dall’ospedale psichiatrico. Risponde Michael, -Sto andando a casa. -Bravo, figliolo! E aggiunge: -Dove non siamo stati noi Semjakin! Battaglie, bagordi, manicomi……

“Un mio amico era stato rinviato a giudizio. Era accusato di propaganda antisovietica. Il giudice istruttore lo interroga: – Conosce un certo Boris Aleksandrovic Cumak? -Sì. -Questo Boris Aleksandrovic Cumak aveva accesso a un macchinario per ciclostile di marca Era? -Sì. – Cumak ha stampato con il macchinario Era cento copie della Dichiarazione universale dei diritti umani? -Sì -Ha consegnato a lei, Michail Il’ic, cento copie della Dichiarazione? -Sì. -E ora lo ammetta, Michail Il’ic, questa Dichiarazione l’ha scritta lei! Non è così?

“Mia zia aveva incontrato lo scrittore Koscinskij. Era ubriaco e con la barba lunga. La zia gli aveva chiesto” -Kirill, ma non ti vergogni?! Kirill aveva assunto un portamento eretto e con fierezza aveva risposto: -Il potere sovietico non merita che io mi faccia la barba!

“Mia zia camminava per strada e aveva incontrato Michail Zoscenko. Lo scrittore era già caduto in disgrazia. Zoscenko si era girato dall’altra parte passando rapidamente accanto alla zia. Lei l’aveva raggiunto chiedendogli: -Ma perché non mi hai salutato? Zoscenko aveva risposto: -Scusami, aiuto gli amici a non salutarmi.

“In America ci sono più credenti che da noi. Per di più, i credenti americani sono in grado di discutere del consumismo o, poniamo, delle manovre in Borsa. In Russia non sarebbe possibile. Da noi, infatti, la religione è sempre stata nobilitata dalla letteratura. Un credente occidentale, anche se crede per davvero, può essere un egoista, un trafficante. Non ha letto Dostoevskij e, se pure l’ha letto, non ha “vissuto in lui”.

“Per caso incontro l’economista Fel’dman. Mi dice: -Sua moglie si chiama Sofija? -No, Elena. – Lo so, scherzavo. Lei non ha il senso dello humour, probabilmente è lettone. -Perché lettone? -Ma scherzavo, lei è proprio privo di senso dello humour. Magari dovrebbe rivolgersi a un logopedista? -Perché a un logopedista? -Scherzo, scherzo, ma dov’è il suo senso dello humour?

“L’umorismo è inversione della vita. Per meglio dire, l’umorismo è inversione del senso comune. Un sorriso della ragione.

“Ogni animale ha dei tratti sessuali (a prescindere dai relativi organi). I maschi dei pesci hanno squame particolari sulla pancia. Gli insetti, dettagli colorati. Le scimmie, mostruosi calli sul sedere. Il gallo, supponiamo, ha la coda. E ora diamo un’occhiata ai maschi umani: dov’è la loro coda? Facile da scoprire. Per uno, sono i soldi. Per un altro, lo humour. Un terzo ha la cortesia, il tatto. Un quarto, un bell’aspetto. Un quinto ha un’anima. E solo i più spensierati hanno semplicemente un fallo. Un pene e basta.

“Ricordo che Iosif Brodskij si era espresso così: -L’ironia è una metafora discendente. Gli avevo chiesto stupito: -E che vuol dire metafora discendente? -Mi spiego, faccia attenzione: “Le sue pupille sono stelle” è una metafora ascendente, mentre “Le sue pupille sono padelle” è una metafora discendente.

“La differenza tra Kusner e Brodskij è la stessa che c’è tra mestizia e angoscia, tra paura e orrore. Mestizia e paura sono una reazione al tempo. Angoscia e orrore sono una reazione all’eternità. Mestizia e paura sono rivolte verso il basso. Angoscia e orrore verso il cielo.

“Siamo in ospedale. Mi stanno trasportando in terapia. Sul petto ho un volume di Dostoevskij. Me l’ha appena portato Nina Alovert. Il medico americano mi chiede: -Che libro è? -Dostoevskij. -L’idiota? -No, L’adolescente. -È un’usanza? s’incuriosisce il dottore. -Sì, -dico, -è una nostra usanza. Gli scrittori russi muoiono con un volume di Dostoevskij sul petto. -No Bible?(niente Bibbia?) -No, -dico, -proprio un volume di Dostoevskij. L’americano mi ha guardato con interesse.

Brodskij e Dovlatov