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John Berger – Ritratti

Sistemate in ordine cronologico, John Berger si occupa di una serie di opere artistiche a partire dalle pitture rupestri della grotta di Chauvet, fino ai disegni di Randa Mdah, artista siriana nata nel 1983. Interpreta e valuta adottando diversi criteri: secondo la conformità della prassi alla teoria, sulla forza del disegno, la luminosità del colore e la concordanza con un ideale formale; finalizzando l’opera a esiti emozionali o affettivi, facendo leva sulla forza persuasiva; equiparando qualità con autenticità. Sempre tenendo conto che, la finalità estetica di un’opera appartiene al proprio tempo che sempre esercita influenza sulla cultura e i suoi orientamenti. Per seguire questo precetto, riporta molte notizie documentarie attorno alle vicende che riguardano la vita dell’artista, come componenti della sua cultura, come processi attraverso i quali l’opera si è formata. Per conseguenza, considera anche il suo stesso giudizio variabile nel tempo. Valutare solo i fattori visivi o le forme, prescindendo il tempo, il luogo, i fatti, equivarrebbe a nasconderne il messaggio. L’artista ri-crea nell’opera la sua esperienza del mondo. L’opera, stimolando il processo della percezione, ha il potere di attrarre altre idee, altri significati, di sollecitare associazioni nuove nei fruitori, i quali, osservando, riconoscono qualcosa di preesistente e mediante un’identità di spirito, ripercorrono una forma di mistero. Quasi tutti i “ritratti” del libro iniziano con un’analisi, a volte fatta con ragionamenti inediti, qualche ripensamento, per poi condursi, attraverso il coinvolgimento emotivo, verso il racconto di fatti personali, verso una poesia, uno scambio epistolare, sovrapposizioni di immagini, anacronistici parallelismi, esami sulla politica attuale.

Caravaggio è l’emozione di raccontare il sentimento che prova verso la donna amata…Quando sei lontana, per me sei comunque presente. Questa presenza è multiforme: consiste di innumerevoli immagini, paesaggi, significati, cose note, punti di riferimento, eppure l’insieme rimane marcato dalla tua assenza, in quanto è diffusa. È come se la tua persona diventasse un luogo, i tuoi contorni orizzonti. Allora vivo in te come se vivessi in un paese. Sei ovunque…Una sera a letto mi hai chiesto chi è il mio pittore preferito. Ho esitato, in cerca della risposta meno studiata e più veritiera. Caravaggio. La risposta ha sorpreso anche me. Ci sono pittori più nobili di lui e anche pittori con una visione più ampia. Ci sono pittori che ammiro di più e che sono più ammirevoli. Ma non c’è nessuno a quanto pare -visto che la risposta mi è venuta spontanea- a cui mi senta più vicino.

Rembrandt… La prima volta che ho visto “Il cavaliere polacco”, mi è parso che potesse trattarsi del figlio di Rembrandt, l’adorato Titus. Mi sembrava -e continua a sembrarmi-  un dipinto che parla dell’andarsene di casa….Amo il dipinto del “Cavaliere polacco” come potrebbe amarlo un bambino, perché è l’inizio di una storia raccontata da un vecchio che ha visto molte cose e non vuole mai andare a dormire… Amo il cavaliere come potrebbe amarlo una donna: la sua audacia, la sua insolenza…. A volte la consuetudine equestre è ancora visibile nei corpi e nel modo in cui si muovono (i polacchi). Il gesto di mettere un piede nella staffa e di lanciare verso l’alto l’altra gamba mi viene in mente mentre sono seduto in un bar pizzeria di Varsavia e guardo gli uomini e le donne che in vita loro non hanno mai montato o neppure toccato un cavallo, e stanno tutti bevendo una Pepsi-Cola…. Amo “Il cavaliere polacco” come potrebbe amarlo un cavaliere che ha perso la sua cavalcatura e a cui ne è stata regalata un’altra. Il cavallo donato è un po’ vecchiotto, i polacchi a un ronzino del genere danno il nome di szkapa, ma è un animale di provata fedeltà. Infine amo l’invito del paesaggio, da qualunque parte conduca.

Vermeer…Le grandi rivelazioni avvengono tutte prima dei venticinque anni. Forse perché le aspettiamo con tanta avidità. Rilke fu il primo poeta europeo moderno che lessi. Matisse il primo disegnatore che capii. Impossibile separare la mia esperienza delle loro opere dal letto di una ragazza…. Le rivelazioni che avvengono in seguito sono più oggettive. D’un tratto si ha l’impressione di vedere in una nuova luce… Ci si sente in dovere e non, come prima, semplicemente desiderosi di riconoscere ed essere riconosciuti. Tutti, superati i trentacinque anni, cominciamo a spiegare…. Vermeer, che cosa voleva dire nell’immobilità delle sue stanze che la luce riempie come l’acqua colma una cisterna? Qual è il significato delle donne al tavolo e alla finestra che la luce rivela? Perché possiamo sentirci così vicini a loro, i nostri occhi che assorbono ogni intima goccia di luce (come se, osservando, asciugassimo delicatamente le superfici umide), e al contempo essere così distanti da loro?…. Era in grado di ritrarre con precisione impareggiabile ciò che costituiva il singolo istante perché aveva una consapevolezza acutissima, oggettiva e senza ombra di nostalgia del fatto che ogni istante vissuto è irripetibile… Di fronte a una donna di Vermeer che puntualmente gira la testa, legge una lettera, versa il latte, si prova una collana allo specchio, alza un bicchiere, ci accorgiamo proprio dello scorrere del tempo.

Géricault…. Dietro ogni cosa che immaginava e dipingeva si avverte lo stesso voto: lasciatemi guardare in faccia la sofferenza, lasciatemi scoprire il rispetto e, se possibile, trovare la bellezza…. Géricault aveva molto in comune con Pasolini                                                                                          

mi sforzo a capire ogni cosa, ignaro

come sono d’altra vita che non sia

la mia, fino perdutamente a fare

di altra vita, nella nostalgia,

piena esperienza: sono tutto pietà,

ma voglio che diversa sia la via

del mio amore per questa realtà,

che anch’io amerei caso per caso, creatura

per creatura.

I ritratti dell'”Assassino folle” o del “Cleptomane”, sono il primo esempio di chi ha guardato in faccia così a lungo e con tale intensità qualcuno che era stato classificato e condannato come pazzo…. Ci sono periodi storici in cui la follia si mostra per quello che è: un’afflizione rara e anormale. In altri periodi -come quello in cui siamo appena entrati- si direbbe che la follia sia comune… Nel corso della storia..ogni forma di afflizione è diventata, in un certo senso, il promemoria di una speranza. Qualsiasi dolore attestato, condiviso o sofferto restava naturalmente dolore, ma poteva essere in parte trasceso se lo si percepiva come sprone a compiere maggiori sforzi in vista di un futuro che ne fosse privo. L’afflizione aveva avuto uno sbocco storico! E durante questi due secoli tragici, perfino la tragedia era considerata latrice di una promessa. Oggi le promesse sono diventate sterili…Non c’è posto per la pietà nell’ordine naturale del mondo che opera in base alla necessità. Lo guardiamo con indifferenza, non lo conosciamo. È matto. Non ci si può fare niente.

Renoir….Suo figlio, il regista cinematografico Jean Renoir, ha scritto un libro notevole sui suoi ricordi d’infanzia. Vi si trova questa conversazione con il padre: “Di chi è questa musica? – Di Mozart- Che sollievo. Per un istante ho temuto che fosse di quell’imbecille di Beethoven…il modo in cui Beethoven parla di sé è francamente indecente. Non ci risparmia il minimo dettaglio delle sue pene d’amore o sul suo mal di stomaco. Ho avuto spesso una gran voglia di dirgli: che cosa me ne importa se sei sordo?“.                                                             Non c’è niente di più semplice che ridicolizzare un’epoca passata, e non c’è niente di più ridicolo. Non è per nostro merito se oggi siamo più vicini a Beethoven. È troppo facile applicare retrospettivamente a Renoir (a Picasso, aggiungo io) il ragionamento femminista….

Van Gogh…. Per un animale ambiente naturale e habitat sono un dato; per l’uomo la realtà non è un dato (nonostante gli empiristi). Essa va di continuo cercata, trattenuta, sono tentato di dire “salvata”. Ci viene insegnato a contrapporre reale e immaginario, come se il primo fosse sempre a portata di mano e il secondo distante, remoto. Questa contrapposizione è falsa…La realtà, comunque la si interpreti, si trova al di là di uno schermo di cliché. Ogni cultura produce tale schermo, in parte per facilitare le proprie pratiche e in parte per consolidare il proprio potere. La realtà è nemica di chi ha potere. Tutti gli artisti moderni hanno pensato che le loro innovazioni offrissero un approccio più intimo alla realtà…. È qui che l’artista moderno e il rivoluzionario si sono talvolta trovati fianco a fianco, ispirati entrambi dall’idea di abbattere lo schermo dei cliché.

Bacon… L’assenza di alternativa, nella sua visione della condizione umana… Il suo progresso, in trent’anni, è di ordine tecnico e consiste nel mettere sempre più a fuoco il peggio..Bacon ha osservato la crudeltà del mondo, dipingendo più e più volte il corpo umano o parti del corpo umano in pena, in preda al bisogno o in agonia…L’arte è piena di omicidi, esecuzioni o martiri…nella visione di Bacon, è che non ci sono testimoni né dolore….Per tutta la vita, di questa sua visione non fregava niente a nessuno. Eppure il mondo crudele che Bacon evocava e tentava di esorcizzare si è rivelato profetico. Può succedere che, nel giro di cinquant’anni, il dramma personale di un artista rifletta la crisi di un’intera civiltà.. Quello che segue, Berger lo ha scritto nel 2004. Tanto per rientrare nel discorso della profezia, della lungimiranza o più semplicemente, del vedere chiaramente dove conducono certe posizioni….L’attuale epoca storica è l’epoca del Muro. Dopo la caduta del muro di Berlino, sono stati srotolati i progetti preparati per costruire muri da ogni parte. Muri di cemento, burocratici, di sorveglianza, di sicurezza, razzisti, zone cuscinetto. Dovunque i muri separano chi è disperatamente povero da chi spera contro ogni evidenza di continuare a essere relativamente ricco. I muri incidono ogni sfera, dal lavoro agricolo alla salute. Esistono anche nelle metropoli più ricche del mondo. Il muro è la prima linea di ciò che, molto tempo fa, si chiamava”guerra di classe”. Da un lato: ogni armamento concepibile, il sogno di guerre senza un solo sacco di plastica per i cadaveri, i media, l’Abbondanza, l’igiene, il glamour per tutti. Dall’altro: le pietre, i viveri scarsi, le faide, le malattie dilaganti, l’accettazione della morte e la continua preoccupazione di come sopravvivere un’altra notte. Oggi dunque la scelta di senso nel mondo è tra le due facce del muro. Il muro è anche dentro ciascuno di noi. Quale che sia la nostra condizione, siamo liberi di decidere con quale lato del muro ci sentiamo in sintonia. Non si tratta di un muro tra il bene e il male. Bene e male esistono da entrambe le parti. La scelta è tra rispetto di sé e caos di sé. Dalla parte dei potenti c’è il conformismo della paura -loro il muro non lo dimenticano mai-  e le labbra che si muovono come per dire parole che non significano nulla. Bacon ha dipinto esattamente questo mutismo.

Pollock….Immaginate un uomo allevato in una cella bianca fin dalla nascita, tanto che non ha mai visto altro che la crescita del proprio corpo. E poi immaginate che d’improvviso gli vengano dati alcuni bastoni e delle vernici brillanti. Se fosse un uomo con un innato senso dell’equilibrio e dell’armonia dei colori, potrebbe, coprire le pareti bianche della sua cella come Pollock ha dipinto le sue tele. Vorrebbe esprimere le sue idee e i suoi sentimenti riguardo alla crescita, al tempo, all’energia, alla morte, ma non disporrebbe di un vocabolario di immagini viste o ricordate con cui farlo. Non avrebbe altro che i gesti che scoprirebbe applicando i suoi segni colorati alle pareti bianche. Potrebbe trattarsi di gesti appassionati e frenetici, ma per noi non significherebbero altro che il tragico spettacolo di un sordomuto che tenta di parlare.

Nicolas de Staël… Per tutta la sua breve vita si è misurato con il cielo e le sue luci…I cieli mutano non solo di ora in ora, e, da una stagione all’altra, ma anche da un secolo all’altro. Cambiano in base al tempo atmosferico, e in base alla storia. Ciò accade perché il cielo è come una finestra e uno specchio, una finestra affacciata sul resto dell’universo, e uno specchio per gli eventi terreni che sotto a esso hanno luogo. I cieli di El Greco riflettono le cospirazioni della Controriforma e dell’Inquisizione spagnola, tanto quanto quelli di Turner riflettono il tumulto della Rivoluzione industriale. Nessuno osserva il cielo reale per più di un istante senza esprimere un desiderio che ha a che vedere con qualche paura o speranza attuale.

Michael Quanne….Qualsiasi pittore professionista impara un dato linguaggio pittorico, e questo linguaggio -quando lo si vede da una grande distanza- è sempre limitato perché è stato sviluppato per esprimere e soddisfare certe esperienze e non altre. Ogni forma d’arte è intimamente connessa a un tipo di esperienza di vita. La differenza tra musica da camera e jazz non riguarda la qualità, l’eleganza o il virtuosismo, ma due stili di vita, che le persone coinvolte non hanno scelto ma in cui sono nate. Il mestiere acquisto da un apprendista nello studio di Gainsborough era ideale per dipingere piume e raso e inutilizzabile per dipingere una Pietà.

Juan Munoz. Nel 2001, a soli quarantotto anni, Munoz muore. Per il “ritratto” da dedicargli, Berger non analizza una sua opera, compone un’associazione. Determinato non dalla somiglianza ma da un modo di porsi, di affrontare e sfidare la vita, dedica all’amico scomparso il ricordo (forse immaginato) dell’incontro con il poeta Nâzim Hikmet e un racconto di impressione  ..Quando si racconta una storia, tutto dipende da che cosa segue che cosa. L’ordine più autentico è di rado ovvio. Si scopre a forza di tentativi. Spesso facendo e disfacendo. Ecco perché sul tavolo ci sono anche un paio di forbici e un rotolo di nastro adesivo. Lo scotch non è inserito in uno di quegli aggeggi che permettono di tagliarlo facilmente nelle dimensioni desiderate. Devo usare le forbici. Il difficile è trovare la fine del nastro per srotolarlo. La cerco impaziente con le unghie e m’innervosisco. Sicché, quando la trovo, la appiccico al bordo del tavolo, lascio che il nastro si srotoli fino al pavimento, e lo abbandonò lì a penzolare. A volte esco sulla veranda e mi sposto nella stanza accanto, dove chiacchiero, mangio o leggo il giornale. Qualche giorno fa ero seduto in questa stanza quando qualcosa, muovendosi, ha attirato il mio sguardo. Una minuscola cascata d’acqua luccicante scendeva, ondeggiando, verso il pavimento della veranda vicino alle gambe della mia sedia vuota davanti al tavolo. I torrenti alpini cominciano così. A volte un rotolo di scotch agitato da uno spiffero della finestra può muovere montagne.

Basquiat….Di solito, per contestare le falsità da cui si è avvolti, si ricorre a contro-informazioni che portano alla luce le verità tenute nascoste… Basquiat ha capito che le menzogne non possono essere descritte con nessuno dei linguaggi utilizzati di continuo… La sua strategia di pittore era screditare e fare a pezzi tali codici, lasciando affiorare qualche verità invisibile, clandestina. Il suo stratagemma di pittore è affine a certe forme di rap… Compita il mondo in un linguaggio deliberatamente stentato, ontologicamente stentato… Si è inventato un alfabeto visivo tutto suo composto da innumerevoli segni: lettere, loghi, sagome, diagrammi, emblemi, figure geometriche… così non può entrare in nessun registro ufficiale. I dipinti sono espressivi, li si può ammirare, ricordare, trovano risposta in un altro dipinto, ma sono innominabili. La loro nitidezza celebra l’invisibile, per conseguenza nessuna menzogna può intrappolarle, sono liberi.

Randa Mdah…. In vita mia non ho mai visto disegni come quelli che sto osservando (Lead on paper). Quel che li rende senza precedenti è, almeno per me, l’esperienza di vita di cui sono impregnati. Non la descrivono e non la illustrano, ne sono semplicemente colmi… Che tipo di esperienza è quella di cui sono colmi questi disegni? È una forma di resistenza, abituale, comune e inesauribile. Una resistenza granitica. Una resistenza in ogni corpo che circola come flusso sanguigno. Le mani e le linee dei corpi misurano i battiti della resistenza dell’anima. La percezione di resistenza, forza, energia, fanno riaffiorare alla memoria due fatti accaduti qualche tempo prima. In visita alla tomba del poeta Mahmud Darwish, che si trova su una collina vicina a Ramallah, Berger racconta di essersi seduto sul prato, dove è successo qualcosa di inaspettato e di simile a un caso accadutogli pochi giorni prima. Era in macchina insieme al figlio, nevicava… All’improvviso un uccello ha urtato il parabrezza. Era un uccellino, un pettirosso, stordito ma ancora vivo, che sbatteva le palpebre. L’ho tolto dalla neve, era caldo nella mia mano, molto caldo. Ogni tanto lo esaminavo. Nel giro di mezz’ora è morto. L’ho sollevato per metterlo sul sedile posteriore dell’auto e la sua leggerezza mi ha sorpreso. Pesava meno di quando lo avevo raccolto dalla neve. L’ho passato da una mano all’altra per esserne certo. Era come se la sua energia da vivo, la sua lotta per sopravvivere, si fossero sommate al suo peso. Adesso non pesava quasi nulla. Quando mi sono seduto sull’erba della collina è successo qualcosa di simile. La morte di Mahmud aveva dissolto il suo peso. Quel che restava erano le sue parole.

Berger possiede la capacità di liberare le immagini e determina, con il suo esempio, un metodo da acquisire per permettere alle opere di lavorare su di noi. Ogni opera racchiude una trama da svelare. Chi la osserva ne è assorbito, attratto e interpellato ancora prima di capirne l’intreccio. Unica posizione possibile è interrogarla e interrogarsi, fare ipotesi cercando risposte a quesiti che l’opera pone al suo e al nostro presente, seguire un procedimento associativo, provando a identificarsi. Quest’esperienza diretta di condividere le profonde connessioni dell’arte con l’esperienza umana, agisce come intuizione. Poiché non si guarda solo con gli occhi, il punto non è solamente “cosa hai fatto”, ma anche “chi sei”. Un artista non ha l’obbligo di condurre una vita esemplare, tuttavia il comportamento che ha mantenuto in alcuni frangenti della sua vita o la sua condotta morale, non sempre possono essere disgiunti dalla sua opera. Per quanto ogni giudizio vada contestualizzato e ogni fatto vada interpretato in una prospettiva storica, succede, e per ognuno di noi con motivazioni diverse, che s’imponga dalla coscienza una resistenza che non si riesce a ostacolare. Personalmente ho resistenze oppositive che mi portano a sentirli incompatibili con me, per George de La Tour e William Turner. Verso Turner per “colpa” di un film. Mike Leigh nel 2014 ha diretto un film biografico su Turner. Il film, fotograficamente eccellente, ha messo in luce le caratteristiche più basse del pittore, la brutale materialità, aspetti (anche quello fisico) quasi animaleschi. Un anaffettivo totalmente disinteressato alla vita degli altri, reso così fortemente dal suo interprete che, anche il povero Timothy Spall, l’attore che lo impersona, mi è oramai insopportabile qualsiasi ruolo interpreti. Purtroppo le fonti storiche confermano l’assoluta attinenza del Turner cinematografico con quello reale: era davvero un gretto misantropo e la suggestione ricevuta dal film ancora oggi agisce su di me. Guardare un quadro di Turner non mi impedisce di coglierne la grandezza, di ammirarne la luce e il colore, ma l’inquietudine e il disorientamento che mi provocano le sue “Bufere” così violente, sono la sua stessa implicita violenza.

Quando ero incinta di mio figlio, un’amica mi imprestò un libro che all’epoca andava molto di moda. Era la guida al parto scritta dal ginecologo francese Frédérick Leboyer. Il libro era corredato da molte immagini di quadri di de La Tour: Adorazione, Natività, Il Neonato. Tutte splendide. I colori rossi, i bruni e i dorati, sono resi spettacolari da una impareggiabile esposizione della luce. Tutte scene notturne, con personaggi assorti, madri in contemplazione del bambino che dorme sereno, la cui delicatezza emerge dal buio, visibile per il bagliore della fiamma di una candela. I protagonisti sono sempre persone semplici, contadine o mendicanti, lo sguardo compassionevole che gli rivolge, tuttavia mal si concilia con i fatti della vita di La Tour. Dopo un ricco matrimonio andò a vivere nella città della moglie, dove ebbe successo, guadagnò molti soldi e divenne un proprietario terriero facoltoso e influente. Durante la guerra dei Trent’anni fece tanti guadagni speculando sul grano durante le carestie. Da documenti d’archivio si sa che dovette pagare le cure mediche a un contadino che aveva aggredito, e altri fatti lo fanno inquadrare come ambizioso, violento e spregiudicato. Allora, queste armoniose visioni che il lume della candela rende vaghe, al limite tra apparenza e illusione, cosa sono davvero? Sono la perfezione formale cui aspirava La Tour? Una soluzione personale, al di là del vero “senso” da attribuire agli altri esseri umani, cui egli non ha saputo dare risposta, o l’interpretazione magica dei sogni più belli di una mamma in attesa?

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Nina Berberova – Il corsivo è mio

Tra il 1960 e il 1966 Berberova scrisse questo libro che parla di persone e di fatti accaduti quarant’anni prima. Lo definisce, libro di memorie, non autobiografia. La distinzione è sostanziale, dice lei stessa, un’autobiografia è egocentrica, mentre le memorie sono il racconto degli altri. Tuttavia succede che anche le memorie parlino più dell’autore che non delle persone di cui si narra. Non a caso, racconta di quella volta che lesse un saggio intitolato “Tre incontri con Lev Tolstoj”. “Il primo incontro: l’autore arriva a Jasnaja Poliana, ma Tolstoj è ammalato. Il secondo incontro: arriva a Chamovniki e lo informano che Tolstoj non è in casa. Il terzo incontro: arriva a Astrapovo e Tolstoj è appena morto. Di Tolstoj non appresi nulla, ma quanto imparai sull’autore!” Anche leggendo questo libro si apprendono molte cose su di lei. Il suo intento era quello di scrivere la storia della letteratura russa del primo Novecento attraverso i suoi protagonisti, perlopiù coloro che hanno fatto parte della prima emigrazione russa (1917/40). Lo fa in modo particolare. Nulla da dire sulla prosa, le si riconosce il merito di saper elaborare con metodo ricco e solido. Invece suscitano perplessità le descrizioni dei personaggi. Tutti sono rappresentati mediante tratti che ne delineano la fisionomia fisica, psicologica e comportamentale. Quasi tutti, come figure che, nel rapporto con l’autrice, costituiscono difficoltà e antagonismi. Spessissimo racconta fatti, o riporta parole, per indicare nelle persone, valori e idee in cui non si riconosce. Poiché si tratta di persone morte da tempo, ha il vantaggio di non preoccuparsi di dover rispondere a proteste o smentite, perciò queste storie e i protagonisti, risultano condizionati dal giudizio della sua particolare ottica: parziale e soggettiva. Molti dei nomi sono noti solo agli specialisti di letteratura russa, ma ne coinvolge talmente tanti che alla fine del libro ci sono ottanta pagine di regesto con una nota per ognuno.

Nel racconto, l’approccio agiografico al “grande” le è estraneo (il che non è un difetto, anzi, ma..), perciò scrive su Pasternak o su Cvetaeva senza la minima riverenza. Accenna direttamente alle inclinazioni lesbiche di Cvetaeva e senza cautela scrive: “L’isolamento di cui scrisse nella sua grande poesia “Il corno di Orlando” ha rivelato dopo molti anni la sua immaturità: l’isolamento non è, come si pensava una volta, la peculiarità di una persona che sta sopra gli altri, l’isolamento è l’infelicità dell’uomo, sia psicologica che ontologica, di colui che non è arrivato a quel punto di maturazione che gli permette di unirsi al mondo. Questo isolamento diventò sempre più tragico, perché con gli anni sentì il bisogno di unirsi agli altri e forse solo alla fine maturò, dopo aver capito che un essere umano non può restare emarginato per anni. Se questo avviene, è colpa sua e non dell’ambiente. Il poeta e il suo dono, il poeta su un’isola deserta, il poeta nella sua torre d’Avorio, tutte immagini seducenti che celano la silente, pericolosa e mortifera assenza tematica…. In lei stessa, nel suo atteggiamento verso le persone e il mondo era già celata la sua fine…. Chodasevic una volta mi disse che Marina Cvetaeva da giovane gli faceva venire in mente EseninUna volta li sognai, penzolavano, soli, dondolavano dal loro cappio.”

Di Pasternak dice di amare alcune poesie, peraltro non le sembrano neanche tanto interessanti:“Nascondeva l’essenza dei suoi versi, si tratta di poesia emotiva e non conoscitiva. Si reagisce attraverso l’udito o la vista senza che sia necessario approfondire nulla… arzigogoli di parole che non hanno a che fare con il tema principale.” Lo ritiene dotato d’ingegno ma non maturo. “Dottor Zivago” lo considera goffo, artificioso e non compiuto.

Riconosce il talento di un certo numero di scrittori, ma perlopiù ha una bassa opinione di tutti, continuando, sgradevole nei toni, a definirli senza gentilezza.

C’è Belyj: afflitto da tormenti insensati, ubriachezza (un russo, ma dai!), sempre alla ricerca di un padre, si sentiva indifeso, non capiva se stesso. I suoi rapporti con gli altri erano fondati sull’incomprensione. Tormentava i conoscenti con visite tardive e ripeteva fino allo strazio il racconto di una storia d’amore finita da oramai quindici anni.

C’è Sklovskij: definito geniale ma uomo fallito, intelligente e ironico, con una testa grossa e un sorriso che metteva in mostra le nere gengive(!).

Berberova a vent’anni subisce la diaspora. A Parigi, lontano dal proprio paese e dai propri familiari, vive in povertà. Descrive questa esperienza dell’esilio insistendo sulla povertà e sull’isolamento dalla vita culturale francese, attribuendo tale alienazione, a una generale indifferenza degli intellettuali francesi, aggravata dalla moda filosovietica diffusa nei circoli letterari parigini. La scrittrice esiliata descrive nelle sue memorie la sua situazione di solitudine, ansia, fallimento in arte e nella vita. Lo fa con l’enfasi del martirio, secondo il modello del maestro pensatore russo, profeta solitario, la cui eroica abnegazione e il rifiuto dei compromessi, lo ha escluso dalla vita collettiva, e si sente disprezzato o deriso. “Quanto odio provava Ladinskij per quella città! Una sera camminavamo insieme per rue Vaugirard… all’improvviso si fermò e disse -Come odio tutto questo, i loro negozi, i loro monumenti, le loro donne, la loro lingua, la loro storia e la loro letteratura… Ciò nonostante, secondo il calcolo più modesto, il mondo intero si è nutrito di tutto questo per circa trecento anni… Qui mi hanno calpestato. E hanno calpestato anche lei-. Cercavo di spiegargli che quell’essere calpestati non era il risultato di una nostra casuale sfortuna personale. Era il risultato di una catastrofe nazionale in cui eravamo implicati”. Quindi lei stessa, con tono piccato, prosegue e si raffronta così: “Sono state scritte decine di libri di memorie sugli anni Venti e Trenta. Era bello essere a Parigi, essere giovani e poveri. Ma il giornalista americano che aveva deciso di farla finita con il suo giornale di Chicago per scrivere un romanzo che nessuno avrebbe pubblicato, oppure il pittore svedese, che aveva deciso di non adeguarsi al gusto del pubblico e di dipingere per sé, oppure il musicista dei Caraibi che suona la sega e aveva spezzato ogni legame con il suo paese non essendo d’accordo con il governo….erano tutta gente che non poteva essere paragonata a noi, avevano deciso di restare, ma sarebbero anche potuti partire… noi eravamo uno strano mucchietto di persone che, pur non potendo per ragioni d’età essere stati né banchieri, né governatori, né generali dello zar, chissà perché non erano d’accordo con quello che succedeva in patria…. Hemingway nelle sue memorie racconta della sua vita a Parigi. Di quegli anni, dei soldi che per i suoi racconti arrivavano quando capitava, dei sessanta franchi al giorno che davano la possibilità di vivere a due persone, modestamente, ma in modo passabile, e anche di andare da qualche parte, a Saint Lys, a Fontainebleau, sulla Loira”. Berberova comparando dice che, quando le girava benissimo, raggranellavano in due trenta o quaranta franchi, e che ogni imprevisto era un problema.

Dopo la seconda guerra mondiale, rimasta sola, Berberova lascia la Francia “che esigeva sottomissione”, per l’America “che non poteva esercitare pressioni”. Qui, entrata nella vita americana, diventa professoressa di letteratura russa in prestigiose università e pubblicando i suoi libri, ottiene la fama che desiderava. A sessant’anni si dice pronta per l’inevitabile, scrive queste memorie anche per interrogarsi sul significato della sua esistenza e fa precedere il racconto da questa descrizione di sé: “Sono libera di vivere dove e come voglio, di leggere ciò che voglio, di pensare a tutto ciò che voglio, come voglio, e di ascoltare chi voglio. Sono libera nelle vie delle grandi città, dove nessuno mi vede… posso sapere tutto quello che voglio sapere e posso dimenticare quello che non mi serve”.

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Brani

A Natasha, amica e compagna di classe, svela il suo segreto più segreto, quello che si vergogna a svelare. Le confida che non le piace Eugenij Onegin. “Perché dovrebbe piacere? Dapprima Tatjana si innamora senza aver scambiato due parole con quella persona, soltanto per il suo aspetto (fatuo, annoiato, vuoto), poi si sposa con un pingue generale soltanto perché glielo chiede la madre. Quindi Tatjana confessa a Onegin di amarlo ma lo respinge: che giochetti antiquati e irresponsabili. Natasha mi osserva accigliata e domanda: -Ma questo ti sembra così importante? Non è poi lo stesso? L’importante è che “Il suo bavero di pelliccia di gelo s’è inargentato”. L’importante è come si incatenano gli enjamblements da un verso all’altro, da una strofa all’altra. È il linguaggio! È l’ironia! È Puskin!”.

Sull’immanenza della fine, osserva le morti di Puskin e di Tolstoj. “Se Tolstoj avesse lasciato la sua casa dopo “Le confessioni” sarebbe morto da uomo libero, superiore alla sua religione moraleggiante. Se Puskin avesse abbandonato la moglie, si è appreso recentemente per l’apertura dell’archivio delle lettere che lei amava D’Anthes, non sarebbe stato vittima della sua stessa aberrazione. Puskin aveva costruito la sua vita, senza sospettare che ai suoi tempi non poteva più sussistere una fedeltà dovuta dal fatto che una donna era stata data in moglie. Puskin morì per una donna, senza capire cos’è una donna, lui che le conosceva così bene! Tatjana Larina si vendicò”.

Sulle persone. “Dopo aver vissuto la mia lunga vita incontrando gente, facendo amicizia con le persone… Mi sono resa conto che ci sono persone esauribili in una serata (in una settimana, in un anno) e ce ne sono altre che sono invece inesauribili, perché dentro di loro succede sempre qualcosa, qualcosa si muove, funziona, si agita, sparisce e riappare di nuovo”.

Sulla creazione artistica. “Stravinskij, in una delle sue interviste riguardanti la creazione artistica, la definisce un processo fisiologico: quando compone si sente come un maiale che cerca il tartufo o come un’ostrica che crea una perla. Confessa che ogni tanto gli cola la saliva per i suoni e l’armonia che sta riproducendo sulla carta, e che ogni creazione artistica è per lui un lavoro degli organi di secrezione interna. Il suo risultato è quanto è stato secreto. Tutto ciò che è inghiottito viene digerito, assimilato, secreto, e anche la creazione artistica è senz’altro un atto fisiologico”.

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Viktor Sklovskij – Zoo o lettere non d’amore.

Quando Sklovskij scrive questo libro (1923) si trova esule a Berlino. La storia e tutti i personaggi descritti sono reali. Zoo, perché a Berlino gli emigrati russi abitavano nel quartiere vicino allo zoo. Lettere non d’amore, perché la destinataria non ricambia il sentimento. Lei impone che non le sia chiesto di vederla e neppure di chiamarla per telefono. Scriverle sì, ma non d’amore. Malgrado ciò, la storia raccontata in questo romanzo epistolare, trova la sua motivazione nell’amore. L’autore, seguendo l’intimazione, con un complesso sistema di combinazioni, rielabora il suo intento (parlare d’amore) dando importanza alle divagazioni e alle descrizioni inessenziali, inattese quanto interessanti, utilizzando toni che variano dall’ironico al dissacrante, dal nostalgico all’amoroso, dal serio al divertito. Sono artifici che variano il contesto, ma non sono altro che metafore dell’amore. Sono elementi che utilizza per proporci una nuova visione delle cose. Sono i modi del Formalismo. Acrobazie per riorganizzare i modi dell’opera letteraria. Servendosi della tecnica del montaggio combina insieme la fiaba, l’opera teatrale, la corrispondenza, la trattativa critica. Vari sono i temi: discetta su Don Chisciotte o sui personaggi di Tolstoj, utilizza i riferimenti biblici per un’analogia con i pantaloni con la piega, spiega che le automobili con il motore elettrico sembra non abbiano cuore, propone descrizioni nostalgiche della Russia, parla dell’emigrazione russa attraverso i ritratti che fa dei suoi protagonisti. C’è quello dolente del poeta Chlebnikov -” ..La vita è sistemata bene, come un nécessaire, ma non tutti riescono a trovarvi il proprio posto al suo interno. La vita tenta di adattarci gli uni agli altri e ride quando noi siamo attratti da chi non ci ama”. Quello dell’etnografo Bogatyrev dalla personalità spiccatamente singolare, il quale, emigrato a Praga, non riusciva a reggere un altro modo di vivere, diverso da quello russo -“… Scoppiò in lacrime…e non era scoppiato in lacrime per sentimentalismo, ma così, come piange un vetro in una stanza che viene riscaldata dopo tanto tempo”. Quello meraviglioso di Pasternak, che fa spiccare la lettera diciassette tra le più belle -” Il tuo racconto sul transatlantico era bello. Dopotutto, io sono un salvadanaio per le tue parole. Tu mi hai raccontato che su una nave del genere si percepisce sempre la sua forza di trazione. Non il movimento in sé, ma proprio la trazione, l’andatura e la potenza dell’andatura. Per un automobilista questo è comprensibile. Tutte le automobili hanno una trazione diversa. Una buona auto fa pressione sulla tua schiena in modo molto piacevole, come il palmo di una mano, e ti spinge….Non ho mai visto un transatlantico. Ma mi piace e lo capisco. Deve essere molto bello danzare su un pavimento che si muove e, quando i pensieri restano un po’ indietro rispetto al movimento (come fa il cuore su un’ascensione che scende), baciarsi e pensare…..Una volta tua sorella si trovava alla Casa della Stampa, a Mosca….Era seduta accanto a Pasternak, Boris. Lui parlava come al solito, lanciando fiumi di fitte parole ora in una direzione, ora nell’altra, ma senza dire l’essenziale. La parola essenziale. E lo stesso Pasternak era così bello che ora lo descriverò. La sua testa robusta, forte, sembrava una pietra a forma di uovo, il petto ampio, gli occhi castani. Marina Cvetaeva dice che Pasternak somiglia contemporaneamente ad un arabo e al suo cavallo. Pasternak si precipita sempre da qualche parte, ma non in modo isterico, lui avanza come un cavallo forte e focoso. Lui va al passo, ma vorrebbe andare al galoppo, lanciando le gambe in avanti, lontano. Dopo molte parole incomprensibili, Pasternak disse a tua sorella: “Sapete, è come se fossimo su una nave”. Quest’uomo grande e felice, in mezzo a persone in paltò che masticavano panini al bar della Casa della Stampa (il che è ridicolo e anche un po’ triste), sentiva la trazione della storia. Lui sente il movimento, i suoi versi sono meravigliosi per la loro trazione, le loro righe si piegano e non riescono a stendersi, come barre d’acciaio, si ammassano l’una sull’altra, come i vagoni di un treno che ha frenato improvvisamente. Bei versi. Un uomo felice. Non sarà mai irritato. Deve vivere la sua vita amato, viziato e grande. A Berlino Pasternak è inquieto. È un uomo di cultura occidentale, quanto meno la capisce, è vissuto anche precedentemente in Germania; con lui adesso c’è la sua giovane, bella moglie, tuttavia è molto inquieto. E non per cercare di dare finitezza alla mia lettera, dirò che mi sembra che, in mezzo a noi, lui senta l’assenza di trazione. Noi siamo profughi, no, non profughi, siamo fuggitivi, ed attualmente siamo in posizione d’attesa. Per il momento. Non va da nessuna parte la Berlino russa. Non ha destino. Nessuna trazione. Lo percepisco così distintamente! Forse ti attirano persone straniere, inglesi, americani, forse con noi ti annoi, perché anche tu percepisci tutto ciò. Queste persone hanno una trazione meccanica, la trazione di un transatlantico, sul cui ponte è bello ballare lo shimmy. Noi perdiamo le nostre donne. È ora di pensare a noi stessi. Noi uomini siamo motori a combustione interna, il nostro compito è portare al traino. La trazione della rivoluzione è passata. Per il ponte non abbiamo scarpe da ballo”.

Combinando la realtà con la finzione, inserisce anche le sorprese: intrufola una lettera cancellata con due righe rosse, comandando a chi legge, malgrado la consideri la più bella, di non leggerla.

L’ultima lettera è invece una supplica dal tono molto serio, affinché gli amici in patria intercedano per il suo rientro in Russia. Una continuità di sovrapposizioni di pensieri rapidi, per raccontare, citare, smitizzare, e giocare con il lettore.

Nella prefazione a un’edizione successiva, dirà che quel passato appartiene a un vecchio io non più riferibile a quello attuale. Più avanti ancora, in un’altra prefazione, scriverà sempre nel suo stile apparentemente semplice, la conclusione del suo tormento. – “Ho settant’anni. La mia anima giace dinnanzi a me. È tutta segnata dalle pieghe del tempo. Quel libro, già allora, l’aveva piegata. Io l’ho raddrizzata. Hanno piegato l’anima la morte degli amici. La guerra. Le dispute. Gli errori. Le offese. Il cinema. E la vecchiaia, che nonostante tutto, è sopraggiunta. Ora, mi è più facile, perché non conosco i luoghi per i quali cammini, non conosco i tuoi nuovi amici, o i vecchi alberi presso il tuo mulino. La memoria si è allontanata in cerchi concentrici. I cerchi sono giunti sino alla spiaggia scogliosa. Il passato non esiste più. I cerchi, gli anelli dell’amore se ne sono andati sulla spiaggia. Non resterò seduto vicino al mare, non aspetterò il bel tempo, non chiamerò il mio pesciolino dalle efelidi dorate. Non resterò seduto, di notte, vicino al mare, non attingerò acqua col mio vecchio cappello di feltro marrone. Non dirò: “Mare, rendimi gli anelli”. Ho persino fatto notte ad aspettare. Sono sparite dal cielo le stelle imperscrutabili. La sola Venere, stella principale della sera e del mattino, è riapparsa in cielo. Fedele all’amore, amo un’altra. Il mattino, nell’ora in cui si può già distinguere un filo bianco da uno azzurro, pronuncio la parola: Amore. Il sole si è riversato nel cielo. Il mattino della canzone non può avere fine, solo noi ce ne andiamo. Vediamo attraverso il libro, così come sull’acqua, quanti valichi ha attraversato il cuore, quanto sangue e quanto orgoglio (elementi del cosiddetto lirismo) sono sopravvissuti al passato.”

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Sergej Dovlatov – Taccuini

“Il narratore orale agisce a livello della voce e dell’udito. Il prosatore a livello del cuore, della mente e dell’anima. Lo scrittore a livello cosmico. Il narratore orale parla di come vive la gente. Il prosatore di come dovrebbe vivere. Lo scrittore del motivo per il quale vivere”. Dovlatov utilizza la misura breve della narrazione che è legata alla narrazione orale. I Taccuini contengono miniature, ovvero: racconti brevi, aforismi, aneddoti, parodie. “Solo per Underwood” (dal nome della sua bianca macchina da scrivere) quelli raccolti tra il 1967 e il 1978 a Leningrado. “Solo per IBM” quelli trascritti a New York tra il 1979 e il 1990 anno della sua morte. A prescindere dall’ironica contrapposizione, pretecnologico/mondo informatico americano, entrambe le parti riguardano la Russia e i suoi protagonisti sono gli amici, i parenti, gli scrittori, gli artisti, i politici sovietici. Le raffigurazioni riguardano la cultura russa e soprattutto l’universo sonoro della lingua russa che per Dovlatov era l’unico riferimento identitario. “Ci credi, io a volte grido persino: Oh, Signore! Che onore! Che grazia immeritata: io conosco l’alfabeto russo!”. Se in URSS il suo entusiasmo era andato verso la letteratura americana, in esilio aveva scoperto che la sua letteratura lo interessava di più.

Dovlatov annotava su un quadernetto, da cui non si separava mai, qualsiasi cosa gli paresse emblematica della forza rappresentativa della parola e gli rivelasse, magari attraverso un dettaglio, aspetti curiosi dell’incongruenza umana. Potevano essere commenti, frasi riferite da altri, brevi aforismi, giochi verbali, parodie umoristiche di canzoni o di poesie celebri russe. In alcuni casi veniva smascherato il conformismo verbale delle istituzioni sovietiche, in altri l’uso improprio del turpiloquio, oppure la divertente incongruenza tra personaggio e registro. Così ha realizzato un affresco del periodo appena antecedente il crollo dell’URSS, anche se niente di ciò che scrive va considerato “vero” in senso cronachistico. Rielabora i testi secondo il criterio dell’autenticità estetica che è lontana dalla realtà fattuale. “I pensieri, le idee e tanto più l’intreccio, sono proprio quello che in letteratura mi interessa di meno. Più di ogni altra cosa mi è caro il lato extra-analitico, la gamma sonora, la struttura cromatica e fonetica, insomma, ciò che di solito chiamiamo fascino inspiegabile”. Una frase detta da qualcuno veniva modificata e messa in bocca a un altro per ottenere un effetto esteticamente più interessante, questo ha provocato reazioni di offesa nelle persone menzionate con i loro nomi autentici. Ma la digressione soggettiva era una predilezione che assecondava la tradizione letteraria russa, secondo cui la digressione poteva assumere una funzione estetica dominante rispetto a quella puramente narrativa. Nei Taccuini emerge anche la dimensione “corale”. Per Dovlatov la storia dei singoli e la storia del suo paese erano connesse. Dai frammenti emerge la stranezza di un mondo surreale, pervaso di drammaticità, e per ritrarre l’incongruità che percepiva, Dovlatov ricorre all’umorismo paradossale. Riso e pianto, insensatezza e divertimento. L’umorismo dovlatoviano evidenzia la capacità di sentire empaticamente la bizzarria e la complessità delle relazioni umane, e di smascherare la rigidità del “senso comune”. Il senso comune non ha nulla a che vedere con il buon senso. Quest’ultimo prevede il coraggio di emanciparsi dai dettami della maggioranza, il senso comune è parte dei dettami rigidi della maggioranza che s’impone e domina sui singoli individui. L’empatia umoristica verso le buffe incoerenze umane, era vista da Dovlatov non solo per deridere ma anche per compiangere il perbenismo compiacente dell’uomo sovietico. Dovlatov non era banalmente anticomunista, diceva: “Dopo i comunisti più di tutti detesto gli anticomunisti”. L’anticomunismo lo considerava un regime assai simile, entrambe forme imposte che portano all’appiattimento del senso critico, per asservire il pensiero individuale all’autorità degli uni o degli altri. Per combattere il nemico si poteva finire per assomigliargli molto. L’umorismo era dunque il salvifico sorriso dell’intelletto, con cui un singolo individuo può dissociarsi dai luoghi comuni del pensiero. Scopo dello scrittore non è quello di destrutturare le idee altrui, ma di legittimare l’incertezza e la diffidenza. In tal senso, la concezione artistica di Dovlatov, può essere definita “poetica del dubbio”. Quelle di “buon senso” erano battute argute, raffinate, inarrestabili che l’elite leningradese esibiva sorprendendo i suoi interlocutori. Al tempo stesso dovevano suonare naturali, eleganti, equilibrate, con uno stile ricercato, tanto che non era un caso che proprio Leningrado fosse divenuta l’emblema della resistenza spirituale alle imposizioni ideologiche del regime sovietico. Per Dovlatov l’estetica del linguaggio era l’essenza stessa della letteratura e l’incessante stilizzazione umoristica, aveva la funzione di tributare dignità rappresentativa all’insensatezza esistenziale. Nel mondo illogico l’umorismo compie un atto di sublimazione e ribellione. Tra i miti negativi dei letterati russi c’era sempre stata la “normalità”, intesa come piattezza, accettazione verso una vita mirata a soddisfare senza sforzo i propri bisogni fisiologici. Nell’immaginario degli artisti sovietici, in modalità differente a seconda dell’orientamento, permaneva l’associazione negativa tra i concetti normalità, folla e regime. Per Dovlatov era certamente insopportabile l’apprezzamento che la massa dimostrava al regime, il quale per ricompensarlo lo nutriva e lo liberava dalle responsabilità sociali, ma percepiva anche, in questa volontà di distinguersi, una vena di snobismo. Per lui il genio non è ostile alla folla ma alla mediocrità. La novità di Dovlatov risiede proprio nello sguardo bonariamente autoritario, nella capacità di barcamenarsi con umorismo tra mania di grandezza e autocommiserazione, cercando di guardare con clemenza ed empatia. Aveva chiaramente compreso che i sogni umani sono inversamente proporzionali all’immagine di sé, per questo aveva avuto il coraggio di accettare che la vera autonomia critica stesse nella capacità di rivolgere lo sguardo indagatore soprattutto verso se stesso: “Negli anni settanta ero un letterato con enormi pretese e la mia ambizione era inversamente proporzionale alle possibilità concrete. La mancanza di possibilità mi autorizzava a considerarmi un genio incompreso….In Occidente, per me, non è emerso che io sia un genio e alcune illusioni sono svanite”. C’è uno stretto legame tra i Taccuini e le altre opere di Dovlatov. Alcuni frammenti si ritrovano innestati in altri libri. L’innesto non è una mancanza di idee, anzi, esprime l’importanza della progettazione, della ricorsività espressiva che riconduce un’opera a un’altra e rivela una ricerca formale. Lo stesso principio vale per quando parodiava e rivisitava i versi classici russi. Aveva sperimentato un collage o mosaico, producendo immagini nuove, associazioni differenti. Non si tratta di autocitazionismo ma di ibridazione sperimentale. Come in musica quando la stessa sequenza di note viene innestata in un’altra composizione, o nelle arti figurative un segmento decorativo o un elemento tematico sono trasferiti da un’opera ad un’altra. Qualsiasi esperienza di scrittura era per Dovlatov letteratura, un accurato lavoro sulla lingua, su ogni parola, su ogni sillaba. Persino un bigliettino qualsiasi era scritto con impegno e questo atteggiamento reverenziale verso la scrittura era alla base della sua etica professionale, nella convinzione che un artista, se è davvero tale, lo sia sempre.

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“Io e mio cugino ci svegliamo da una sua amica. La sera prima avevamo bevuto molto. Siamo in condizioni pietose. Vedo che mio cugino si è alzato e si è lavato. Sta in piedi davanti allo specchio e si pettina. Gli dico: -Possibile che tu stia bene? -Sto malissimo. -E ti fai bello? -Non mi sto facendo bello, -risponde mio cugino, -Non mi sto facendo bello, sto preparando la salma.

“L’unica verità contenuta nei quotidiani sovietici è nei refusi: -Il cago supremo (invece di capo). -Il peto bolscevico ( invece di veto). – I comunisti inculano la dottrina del Partito ( invece di inculcano). Eccetera

“Mia moglie dice: -Tutti hanno dei complessi e tu non fai eccezione. Tu hai il complesso della mia inferiorità.

“A novembre Grubin mi aveva proposto di festeggiare insieme l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, mi pare fosse il sessantesimo. Gli avevo risposto che quel giorno avrei sospeso le bevute: perché onorare quell’evento? Lui allora mi ha detto: -Semmai è non bere che sarebbe un onore. Perché mai proprio oggi dovremmo metterci a non bere?

“Una volta mio padre mi dice: -Io sono vecchio, ho avuto una lunga vita da artista e ho conservato un ricchissimo archivio. Voglio lasciarlo a te. Contiene materiali rarissimi, la corrispondenza con Mejerchol’d, con Tolubeev, con Sostakovic. Gli chiedo: -Tu ti scrivevi con Sostakovic?! -Certo, -dice mio padre, -Eccome! Avevamo una corrispondenza artistica, ci scambiavamo idee, opinioni. -In quali circostanze? -gli chiedo io. -Durante la guerra, quando eravamo sfollati, lavoravo a qualcosa e Sostakovic scriveva le musiche. Nelle lettere discutevamo i vari dettagli. Te le mostro? Dopo aver cercato a lungo nel suo armadio, alla fine mio padre tira fuori una normale cartellina da cui estrae un piccolo foglietto bianco. Con devozione leggo: “Telegramma: Sulle sue osservazioni categoricamente dissento. Sostakovic”.

“Tamara Zibunova aveva acquistato un radiogrammofo marca Estonia. Con l’aiuto di amici l’aveva portato a casa. Sul pianerottolo si ergeva il suo vicino, l’alcolista zio Sasa. Tamara gli dice: -Ecco, zio Sasa, ho comprato un radiogrammofo per neutralizzare il tuo turpiloquio! In risposta, zio Sasa grida improvvisamente: – La verità non puoi neutralizzarla!

“Al Parco-museo di Aleksandr Pushkin i turisti sono molto avidi di informazioni. Alle guide pongono strani quesiti: -Ma chi sarebbe questo Boris Godunov? -Qual è stata la causa del duello tra Puskin e Lermontov? -Il periodo di Boldino si è svolto qui o a Boldino? -Ma Puskin c’è stato da queste parti? -Qual era il patronimico del figlio più piccolo di Puskin? -L’amante di Puskin era anche l’amante di Esenin? A Leningrado, a una guida turistica che conosco, hanno chiesto: -Cosa si trova ora allo Smol’nyj, il Palazzo d’Inverno? E infine una domanda che è totalmente folle: -Dicono che Lenin sapesse nuotare a dorso, è vero?

“Il giovane artista Michail Semjakin era stato dimesso dall’ospedale psichiatrico. Stava tornando a casa ed ecco che incontra suo padre. I suoi erano divorziati. Il padre, valoroso colonnello in congedo, gli chiede: -Da dove vieni, figliolo, dove stai andando? -Dall’ospedale psichiatrico. Risponde Michael, -Sto andando a casa. -Bravo, figliolo! E aggiunge: -Dove non siamo stati noi Semjakin! Battaglie, bagordi, manicomi……

“Un mio amico era stato rinviato a giudizio. Era accusato di propaganda antisovietica. Il giudice istruttore lo interroga: – Conosce un certo Boris Aleksandrovic Cumak? -Sì. -Questo Boris Aleksandrovic Cumak aveva accesso a un macchinario per ciclostile di marca Era? -Sì. – Cumak ha stampato con il macchinario Era cento copie della Dichiarazione universale dei diritti umani? -Sì -Ha consegnato a lei, Michail Il’ic, cento copie della Dichiarazione? -Sì. -E ora lo ammetta, Michail Il’ic, questa Dichiarazione l’ha scritta lei! Non è così?

“Mia zia aveva incontrato lo scrittore Koscinskij. Era ubriaco e con la barba lunga. La zia gli aveva chiesto” -Kirill, ma non ti vergogni?! Kirill aveva assunto un portamento eretto e con fierezza aveva risposto: -Il potere sovietico non merita che io mi faccia la barba!

“Mia zia camminava per strada e aveva incontrato Michail Zoscenko. Lo scrittore era già caduto in disgrazia. Zoscenko si era girato dall’altra parte passando rapidamente accanto alla zia. Lei l’aveva raggiunto chiedendogli: -Ma perché non mi hai salutato? Zoscenko aveva risposto: -Scusami, aiuto gli amici a non salutarmi.

“In America ci sono più credenti che da noi. Per di più, i credenti americani sono in grado di discutere del consumismo o, poniamo, delle manovre in Borsa. In Russia non sarebbe possibile. Da noi, infatti, la religione è sempre stata nobilitata dalla letteratura. Un credente occidentale, anche se crede per davvero, può essere un egoista, un trafficante. Non ha letto Dostoevskij e, se pure l’ha letto, non ha “vissuto in lui”.

“Per caso incontro l’economista Fel’dman. Mi dice: -Sua moglie si chiama Sofija? -No, Elena. – Lo so, scherzavo. Lei non ha il senso dello humour, probabilmente è lettone. -Perché lettone? -Ma scherzavo, lei è proprio privo di senso dello humour. Magari dovrebbe rivolgersi a un logopedista? -Perché a un logopedista? -Scherzo, scherzo, ma dov’è il suo senso dello humour?

“L’umorismo è inversione della vita. Per meglio dire, l’umorismo è inversione del senso comune. Un sorriso della ragione.

“Ogni animale ha dei tratti sessuali (a prescindere dai relativi organi). I maschi dei pesci hanno squame particolari sulla pancia. Gli insetti, dettagli colorati. Le scimmie, mostruosi calli sul sedere. Il gallo, supponiamo, ha la coda. E ora diamo un’occhiata ai maschi umani: dov’è la loro coda? Facile da scoprire. Per uno, sono i soldi. Per un altro, lo humour. Un terzo ha la cortesia, il tatto. Un quarto, un bell’aspetto. Un quinto ha un’anima. E solo i più spensierati hanno semplicemente un fallo. Un pene e basta.

“Ricordo che Iosif Brodskij si era espresso così: -L’ironia è una metafora discendente. Gli avevo chiesto stupito: -E che vuol dire metafora discendente? -Mi spiego, faccia attenzione: “Le sue pupille sono stelle” è una metafora ascendente, mentre “Le sue pupille sono padelle” è una metafora discendente.

“La differenza tra Kusner e Brodskij è la stessa che c’è tra mestizia e angoscia, tra paura e orrore. Mestizia e paura sono una reazione al tempo. Angoscia e orrore sono una reazione all’eternità. Mestizia e paura sono rivolte verso il basso. Angoscia e orrore verso il cielo.

“Siamo in ospedale. Mi stanno trasportando in terapia. Sul petto ho un volume di Dostoevskij. Me l’ha appena portato Nina Alovert. Il medico americano mi chiede: -Che libro è? -Dostoevskij. -L’idiota? -No, L’adolescente. -È un’usanza? s’incuriosisce il dottore. -Sì, -dico, -è una nostra usanza. Gli scrittori russi muoiono con un volume di Dostoevskij sul petto. -No Bible?(niente Bibbia?) -No, -dico, -proprio un volume di Dostoevskij. L’americano mi ha guardato con interesse.

Brodskij e Dovlatov
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Thomas Bernhard – Il soccombente

Ancora una narrazione di isolamento, infelicità, malattia, follia e morte. Ancora un autoritratto indiretto che si mescola con fatti storici, dettagli di fantasia, un subbuglio di emozioni, per dar vita a una storia basata sulla filosofia esistenziale. Formalmente assomiglia ad un brano musicale barocco, il cui tema principale è variato molte volte. La dichiarazione contenuta nelle prime pagine viene ripetuta continuamente, aggiungendo dettagli ogni volta diversi. I riferimenti al mondo della musica all’interno della produzione di Bernhard sono vari. La sua scrittura ha un carattere musicale, un preciso andamento ritmico che contempla la ripetizione, la variazione e la ripresa. L’uso della reiterazione di pensieri e parole è costitutiva delle sue opere, così come la sua vocazione a problematizzare l’esistenza e la tendenza disfattista e deprimente. La componente musicale è concepita per caratterizzare un’atmosfera che non può che esprimersi in modo frantumato, irrimediabilmente destinato alla rovina, alla follia, alla morte, come espressione di un nichilismo profondo.

Il testo è un lungo monologo di pensieri che si uniscono ai ricordi, rivolti agli incontri fatti in giovinezza o negli ultimi giorni. I livelli temporali e i fili narrativi si intrecciano in modo complesso. Proprio come la cadenza in un brano musicale, inserisce monotonamente, alla fine di molte frasi, “ha detto, penso”. I tre amici pianisti che si sono conosciuti al corso di perfezionamento di Horowitz, rappresentano le diverse sfaccettature della vocazione, che può nascere da una ribellione verso la famiglia d’origine avversa all’arte, o da un’opposizione alla pratica del profitto della ricca borghesia austriaca. Il soccombente è un saggio sul loro destino, sul destino del genio Glenn Gould, su quello dell’ambizioso fallito Wertheimer, su quello dell’ambizioso che si salva perché mette in pratica una strategia che può conciliarsi con la propria esistenza.

La genialità di Gould e il suo radicalismo pianistico ha un effetto paralizzante sugli altri due, sui quali s’innesca un processo di negazione di se stessi, di annichilimento del loro talento. Wertheimer, il soccombente, epiteto assegnatogli proprio da Gould, che in mancanza di Gould sarebbe diventato un eccellente virtuoso, aveva cominciato a pensare di rinunciare a tutto quando lo sentì suonare la prima volta le Variazioni Goldberg. Fu mortalmente colpito, distrutto, ma impiegò degli anni a decidere di smettere. Il narratore invece, dice di sé che non gli bastava appartenere alla schiera dei migliori, lui voleva essere il migliore in assoluto o nessuno, così cessò di suonare. “……mi sono stupito di Glenn, ho osservato con stupore il suo sviluppo, ogni volta che l’ho incontrato ero stupito e ho accolto con stupore quelle che sono state chiamate le sue interpretazioni. Io ho sempre avuto la possibilità di dare libero sfogo al mio stupore, di non permettere a niente e a nessuno di circoscrivere o limitare il mio stupore. Questa capacità Wertheimer non l’ha mai avuta…..Io ho sempre voluto essere me stesso, Wertheimer assai volentieri sarebbe stato Glenn Gould….per tutta la vita in uno stato di eterna disperazione voleva essere qualcun altro… non era capace di vedere se stesso come un essere unico al mondo….quest’ancora di salvezza non l’ha mai presa in considerazione….è sempre stato un emulatore, ha emulato tutti quelli che riteneva più dotati di lui….e così si è cacciato nella catastrofe.” Terminato il corso Gould torna in Canada, trasformando in una mostruosità il suo invasamento pianistico, suonando ogni giorno da otto a dieci ore, isolandosi dall’umanità che detestava, fuggendo l’uomo che era in lui, per tendere all’ideale folle di porsi come intermediario musicale tra Bach e lo Steinway, finendone stritolato. Il narratore Bernhard fa morire di una morte romantica il genio: suonando le Variazioni Goldberg viene colto da un ictus. Wertheimer non ha sopportato la morte di Gould, si è vergognato di essere ancora in vita, e la consapevolezza di essere un perdente lo porta al suicidio. Ma prima, attraverso un processo di intristimento nel quale si invaghisce della sua stessa infelicità, smette di suonare e si dedica alle scienze dello spirito e a quella che considera un’arte deteriore, scrivere aforismi, con l’intenzione di produrre un’opera che si intitolerà Il soccombente….”arte tipica di quelli che intellettualmente hanno il fiato corto….si tratta dei filosofi di mezza tacca che scrivono per i comodini da notte delle infermiere…. si tratta di imbrogliare l’umanità intera con piccolissime trovate che mirano ad effetti grandiosi…se smettiamo di bere moriamo di sete, se smettiamo di mangiare moriamo di fame…A essere esatti, dei più grandi progetti filosofici quello che rimane a noi non è altro che un misero retrogusto aforistico….tutto si riduce in briciole…..Noi studiamo un’opera colossale, l’opera di Kant per esempio, e col passare del tempo essa si riduce alle piccole pensate di un filosofo della Prussia orientale chiamato Kant…di ciò che voleva essere un dettaglio colossale è rimasto un ridicolo dettaglio…Notte e giorno io sento il lamento dei grandi pensatori che sono stati rinchiusi nelle nostre librerie…è tutta gente che ha violato la natura, ma il delitto capitale lo hanno commesso contro lo spirito, è per questo che vengono puniti e da noi ficcati dentro le nostre librerie…dovunque si presenti lo spirito, subito viene impacchettato e ingabbiato..Alla fine ho trovato riparo nell’idea di diventare autore di aforismi….io dico una cosa e gli altri non comprendono, continuamente le cose vengono fraintese e fintanto che esistiamo, dai malintesi non riusciamo a tirarci fuori.” Il narratore, unico superstite, si prende l’occasione per dar sfogo alle sue riflessioni sul virtuosismo, sul dilettantismo, sulla possibilità di diventare un pianista di spicco e sull’alternativa che si è dato alla carriera mancata. Anche lui avvia un processo d’intristimento, regala il suo pianoforte a una ragazzina incapace che lo distruggerà, lascia l’Austria per la Spagna, si immerge nello studio della filosofia, in particolare Pascal che focalizza l’instabilità della condizione umana. Ma soprattutto si dedica alla stesura di un saggio proprio su Glenn Gould. Dopo vari tentativi, trova finalmente la chiave per fare chiarezza e poter scrivere su una personalità immensamente più grande e più degna di adorazione, rispetto a quella limitata e mitizzata dai più.

Le Variazioni Goldberg sono una composizione formata da 1 aria più 30 variazioni e 1 aria da capo. La Variazione 30 è un Quodlibet, un intreccio di due canzonette popolari. L’aria da capo finale non è veramente il riaffiorare dell’aria iniziale, suona diversa, è cambiata. Questa è la stessa struttura de Il soccombente. Si apre al suono delle Variazioni e il motivo principale raccontato è ripetuto e ripreso sempre in modo diverso. Il titolo della composizione è citato 32 volte nel romanzo. I due personaggi inseriti prima della fine, la locandiera e il boscaiolo, possono essere visti come gli equivalenti letterari delle due canzoni popolari che compaiono nel Quodlibet. Si conclude con l’ascolto del disco delle Variazioni.

Primo e ultimo fotogramma tratti da
Trentadue piccoli film su Glenn Gould regia di François Girard 1993.

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Thomas Bernhard – Il nipote di Wittgenstein

In una lettera indirizzata a Hilda Spiel nel marzo 1971, contrariamente a quanto promesso, Thomas Bernhard spiega di non poter scrivere qualcosa su Ludwig Wittgenstein e ammette la difficoltà di scrivere sul filosofo a lui più caro. In realtà questo voto di silenzio viene rispettato solo in parte, il nome di Ludwig Wittgenstein è abbastanza ricorrente nella sua opera, in forma di citazioni o di rimandi è una continua appropriazione. Di fatto Bernhard è piuttosto affascinato dalla sua vita eccentrica, dalla sua scelta non accademica e dalle tante stranezze che circondano la sua persona. Nella piece teatrale “Ritter Dene Woss” l’identificazione con Woss è evidente. Roithamer il protagonista del romanzo “Correzione” è sempre lui. In “Goethe muore” inventa che il grande scrittore chieda di poter incontrare il filosofo. Nel 1982 esce “Il nipote di Wittgenstein”. Paul Wittgenstein lo conobbe in casa di un’amica comune. Tutti e tre appassionati di musica, Paul ne aveva una conoscenza suprema. Possedeva una acuta capacita d’osservazione e una ricchezza intellettuale e spirituale inesauribile. Paul non parlava mai di Ludwig. Erano pazzi straordinari entrambi, lo zio famoso perché aveva messo nero su bianco la sua filosofia e non la sua pazzia, Paul perché non aveva reso pubblica la sua filosofia, ma messo in mostra la sua pazzia. …”Le ricchezze spirituali si accrescevano incessantemente e al tempo stesso la sua mente non riusciva più a star dietro al loro ingorgarsi nella mente e allora la mente esplode. Così è esplosa la mente di tutti quei pazzi filosofi la cui ricchezza spirituale si forma e sviluppa di continuo, con una velocità assai più grande di quella con cui riescono a gettarla fuori dalla finestra della loro mente.”

Nel 1967 Paul e Thomas finiscono entrambi ricoverati all’Altura Baumgartner, in due padiglioni distinti: nel padiglione Hermann per i tubercolotici Thomas Bernhard, nel padiglione Ludwig per i pazzi Paul Wittgenstein. Il libro parte da qui, ripercorrendo il loro rapporto, riporta l’immagine che Bernhard ha del suo amico.

Il libro è un unico capitolo composto da frasi incessanti, ripetitive e vorticose, il cui scopo è produrre straniamento nel lettore, distanziamento critico, ma nel contempo una complicità dovuta all’effetto comico che scaturisce dalla lettura dell’esagerata lunghezza. Le frasi sono attacchi aspri e parossistici, prima all’establishment medico, poi verso la società e certi individui in particolare, verso l’alta borghesia, il popolo, gli intellettuali, i gruppi di appartenenza, i colleghi servili, le autorità, lo stato e persino la natura. Thomas e Paul sono entrambi malati e la malattia, per le persone spirituali e attive, significa sì una compromissione del loro modo vivere, è un peso, ma anche un’opportunità, perché aumenta la comprensione del mondo. La spiritualità fornisce la capacità di vedere la società come patologica e le malattie sono usate come una fase critica di transizione verso una forma di esistenza qualitativamente superiore. I due si somigliano, non sono integrati nella normalità della società e si oppongono al loro ambiente. Il motivo per cui si sono ammalati è lo stesso: Paul è impazzito perché si è opposto a tutto, Thomas ha sviluppato la malattia polmonare per opporsi a tutto. Hanno anche gli stessi tic, camminano facendo attenzione a dove appoggiano i piedi senza calpestare le fessure di congiunzione tra una pietra e l’altra, oppure viaggiando e guardando fuori dal finestrino, non possono fare a meno di contare gli spazi tra le finestre delle case, o le finestre stesse. Amano le stesse cose, odiano le stesse cose. Si comprendono, si supportano a vicenda, si scambiano continue prove d’amicizia. Tuttavia Thomas è consapevole della pericolosità della follia e si sforza di tenerla a bada, perché intravede la solitudine e la morte quando diventa una costante.

Racconta che verso la fine della vita di Paul gli è mancato il coraggio di frequentarlo. La malattia aveva reso debole quel corpo e la prossimità della morte lo intimoriva, al punto da preferire i sensi di colpa piuttosto che rivolgergli la parola. Così non parteciperà neppure al suo funerale. Sarà per il rimpianto di non aver tenuto il discorso funebre, che Paul gli aveva chiesto, che scriverà questo libro.

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Thomas Bernhard – Un bambino

L’ultimo libro della pentalogia autobiografica è quello che si riferisce all’infanzia. Racconta la storia delle sue origini: le sue esperienze fino ai tredici anni, le storie di vita dei membri della sua famiglia, ci sono i suoi commenti riferiti ai sentimenti e alle sensazioni del se stesso raccontato. Tuttavia non è un’autobiografia tradizionale, nel senso che si tratta di qualcosa di più complesso, consiste in un misto di finzione e verità, di fatti esagerati, significa che ha un carattere artistico. L’intenzione letteraria è dunque quella di non raccontare la propria vita reale, di Thomas Bernhard, ma la vita in generale, o più precisamente, una concezione della vita. Questa biografia diventa un’invettiva contro l’ambiente ostile a cui è stato esposto questo bambino, un essere in crescita con una disperata sete di sopravvivenza, in un contesto senza speranza.

Thomas è un bambino intelligente, ostinato, non ama cedere. È un solitario, a scuola viene deriso e nei rapporti con gli altri, per vari motivi, si trova sempre in situazioni di svantaggio. Ama sua madre ma ha con lei un rapporto conflittuale, lei vede in lui l’uomo che l’ha abbandonata e per questo non è in grado di sopportarlo, lo teme e spesso lo punisce. Venera il nonno, pensatore e scrittore che non ha mai svolto un lavoro che possa produrre un reddito. Scrive libri che non riesce a pubblicare ma è il suo autentico maestro, andare dal nonno è per lui come recarsi alla Montagna Sacra. “Squarcia la cortina che gli altri si affaticano di continuo a tenere chiusa…..insieme a lui, del teatro non vedo soltanto la sala, ma anche la scena e tutto ciò che sta dietro la scena…lo spettacolo nella sua totalità.” ..”Mio nonno materno mi ha tirato fuori e con ciò stesso salvato dall’abbrutimento e dal sordido tanfo della tragedia di questo nostro mondo nel quale miliardi e miliardi di persone sono già morte per asfissia. Per tempo mi ha tirato fuori, e non senza un doloroso processo di correzione, dalla palude generale, estraendo per fortuna prima la testa e poi il resto. Per tempo ha richiamato la mia attenzione, e in effetti è stato l’unico a farlo, sul fatto che l’uomo ha una testa e su quello che ciò significa. Sulla necessità che si instauri il più precocemente possibile, oltre alla capacità di camminare, anche quella di pensare.”…… “Stavamo seduti uno accanto all’altro e il nostro accordo era perfetto. Fissare lo sguardo su qualcosa di grande, era questo il suo continuo ammonimento, su quel che c’è di più grande, sull’eccelso! Ma che cos’era l’eccelso? Se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo di essere circondati soltanto da ridicolaggine e meschinità. Quel che importa è sottrarsi a questa ridicolaggine e meschinità. Fissare lo sguardo sull’eccelso! Da allora in poi ho sempre avuto l’eccelso dinanzi ai miei occhi. Ma non sapevo che cos’era l’eccelso. E lui lo sapeva? Le mie passeggiate con lui altro non erano, per tutto il tempo, che storia naturale, filosofia, matematica, geometria, insomma un continuo insegnamento che colmava di felicità. È una vera iattura, diceva lui, che con tutto quello che sappiamo non riusciamo a procedere di un passo. La vita era una tragedia, e noi nella migliore delle ipotesi, potevamo trasformarla in commedia.” Sarà per lui una catastrofe prendere congedo dal nonno e dal suo paradiso quando dovrà passare sotto la tutela del marito di sua madre.

Molto presto si raffronta con la morte. Il suo migliore amico muore bambino di una malattia improvvisa. Il nonno parla spesso di suicidio e lui stesso manifesta più volte propositi suicidi. Desiste dal gettarsi in strada dall’abbaino, perché non gli garba l’immagine di ridursi a un mucchietto di carne verso la quale chiunque per strada avrebbe provato disgusto. Allora escogita un piano ….”con una corda da bucato ben legata alla trave maestra del tetto, con destrezza mi lasciai cadere infilandomi nel nodo scorsoio. La corda si ruppe e io precipitai al terzo piano.”

Sperimenta ben presto la bassezza dei suoi simili, le false sicurezze della famiglia, l’ipocrisia delle autorità, l’insensatezza della scuola, gli orrori del nazismo e della guerra. ….”Io non ero ancora membro del cosiddetto Jungvolk, un gradino preliminare della cosiddetta Hitlerjungend. Poco dopo lo divenni. Senza essere richiesto di un parere, un giorno fui tenuto a presentarmi, in una fila di ragazzini della mia stessa età, nel cortile della scuola media che si trovava proprio accanto alla prigione, al cospetto di un cosiddetto capomanipolo. I membri della Jungvolk erano vestiti con pantaloncini neri di velluto a coste e camicia bruna……Poiché pensava che un velluto a coste è sempre un velluto a coste, mia nonna mi fece confezionare dalla ditta Teufel sulla piazza principale, un paio di pantaloni di velluto, ma siccome il marrone le piaceva di più, non di velluto a coste nero ma di velluto a coste marrone. Quando io, unico tra i nuovi membri dello Jungvolk, mi presentai con un pantalone a coste marrone anziché nero com’era prescritto, il capomanipolo mi diede un ceffone e mi cacciò dal cortile della scuola media con l’ordine di comparire la prossima volta con un regolamentate pantalone di velluto a coste nero…. Trovavo lo Jungvolk ancora più tremendo della scuola. Ne ebbi ben presto abbastanza di cantare sempre le stesse stupide canzoni, di attraversare sempre le stesse strade a passo di marcia gridando a squarciagola. … Ero abituato a essere indipendente, a star solo la maggior parte del mio tempo, detestavo la truppa, aborrivo la massa…. La sola cosa che nello Jungvolk mi faceva un bell’effetto era una pellegrina marrone perfettamente impermeabile.”

Bernhard non smetterà mai, in tutta la sua opera, di deplorare e sbeffeggiare il mondo che lo circonda, di evidenziare l’ottusità delle masse e di condannare la decadenza pervasiva. È la ripetitività insistente della ribellione contro tutto la sua caratteristica principale. Ma qui, in mezzo a tutte le ingiurie contro l’umanità che scrive, c’è anche qualcosa di positivo, persino di felice. Nel mezzo di un idealismo vacillante e di speranze contrastate, c’è un desiderio positivo in questa narrativa reminiscente. Pare che l’attività letteraria che lo porta a occuparsi della sua vita passata e dei suoi pensieri di allora, diventi il mezzo/possibilità per superare, attraverso la conoscenza di sé, le esperienze dolorose dell’infanzia e la sua incapacità a vincerne il peso.

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Anna Maria Ortese – Il mare non bagna Napoli, Silenzio a Milano.

Il primo libro è composto da cinque racconti che le costarono una condanna e un addio, per le accuse di fornire un’immagine distante e non vera della città. Venne disapprovata la sua mancanza d’indulgenza e biasimata la sua assenza di pietà e compassione. Fu considerato (1953) un libro contro Napoli che usciva dalla guerra a pezzi. (Tutto mi ha ricordato l’analoga reazione che ebbe l’intellighenzia messicana all’uscita del film Los olvidados di Buñuel). Ma non si tratta di un saggio, pertanto non vi si sostengono tesi, e il titolo, “Il mare non bagna Napoli”, rivela una volontà che non si soffermerà sulla forma apparente delle cose, rimane implicito che l’autrice indagherà il reale che non si vede o che non si vuole vedere. Nella prefazione su edizioni successive, senza rinnegare nulla, ammetterà di aver proiettato su Napoli la sua personale nevrosi originata dall’angoscia che le procura la realtà, quel meccanismo delle cose che sorgono nel tempo e dal tempo sono distrutte, vale a dire, la paura per la consapevolezza dell’illusorietà delle cose. Il Mare era solo uno schermo su cui si proiettatava il doloroso spaesamento, o male oscuro di vivere, della persona che aveva scritto il libro.

Il primo racconto, Un paio d’occhiali, s’incentra su un problema di vista. La protagonista è Eugenia, una bambina povera e “cecata”. Il suo difetto visivo incide sulla percezione della realtà che per lei risulta sfuocata e confusa. Quando indosserà gli occhiali, ciò che l’attornia, per quanto le risulta misero e abbruttito, le colpirà la testa facendola barcollare fino a stare male. È su questa base che si devono leggere tutti i racconti, composti con una scrittura che esige distanza, fatta di toni alti e sopra le righe, espedienti dell’autrice per riappropriarsi di una realtà altrimenti insopportabile.

“Una chiarezza dolorosa e sfuggente è il vero volto del mondo”. Questo diceva in una dichiarazione in cui rivelava la consapevolezza del proprio lavoro e anche l’inclinazione a identificarsi in esso. Esprimersi era per lei fortemente sentito, come se espressione e sopravvivenza fossero lo stesso problema, e la sua scrittura, misto di prosa e versi, procede nelle sue descrizioni meticolose.

“…Questa infanzia, non aveva d’infantile che gli anni. Pel resto, erano piccoli uomini e donne, già a conoscenza di tutto, il principio come la fine delle cose, già consunti dai vizi, dall’ozio, dalla miseria più insostenibile, malati nel corpo e stravolti nell’animo, con sorrisi corrotti o ebeti, furbi e desolati nello stesso tempo…” –La città involontaria. I Granili

“…La plebe dall’informe faccia riempiva questa strada meravigliosa e scendeva dai vicoli circostanti e s’affacciava a tutte le finestre, mischiandosi alla folla borghese, come un’acqua nera, fetida, scaturita da un buco nel suolo, correrebbe, ingrandendosi, su un terrazzo ornato di fiori. Della presenza di questa plebe, non v’era nessun segno sulle facce dei borghesi, eppure essa era una cosa terribile. Non è che vi fossero solo due o tre vecchie madri, di quelle che si grattano il capo, trascinando uno zoccolo, coi grandi occhi loschi, le mani strette al petto, fossero cinque o sei, ma erano almeno mille…. Se poi aveste voluto incontrare, per pregarlo di una commissione, o solo guardarlo in faccia, uno di quei ragazzetti fra i cinque e dieci anni, che commerciano in sorelle e tabacco con gli americani, quando la flotta USA è nel porto, sareste rimasto atterrito dalla loro quantità…. E come, al cospetto, appariva mirabile e strana la serenità dei borghesi! Io mi dissi che due cose dovevano essere accadute, molto tempo fa: o la plebe, aprendosi come una montagna, aveva vomitato questa gente più fina, che, allo stesso modo di una cosa naturale, non aveva occhi per l’altra cosa naturale; o questa categoria di uomini, per altro molto ristretta, aveva rinunciato, per salvarsi, a considerare come vivente, e facente parte di sé, la plebe…. Tutti erano indifferenti, qui, quelli che desideravano salvarsi. Commuoversi, era come addormentarsi sulla neve. Avvertita dal suo istinto più sottile, la borghesia non smetteva di sorridere, e urtata continuamente dalla plebe, dai suoi dolori sanguinosi, dalla sua follia, resisteva pazientemente… Per la borghesia vi era l’impossibilità di credere che l’uomo fosse altra cosa dalla natura, e dovesse accettare la natura in tutta la sua estensione…. Tollerato era l’uomo in questi paesi, dall’invadente natura, e salvo solo a patto di riconoscersi, come la lava, le onde, parte di essa. Da Portici a Cuma, questa terra era sparsa di vulcani, questa città circondata da vulcani, le isole, esse stesse antichi vulcani; e questa limpida e dolce bellezza di colline e di cielo, solo in apparenza era idilliaca e soave. Tutto, qui, sapeva di morte, tutto era profondamente corrotto e morto, e la paura, solo la paura, passeggiava nella folla da Posillipo a Chiaia”. –Il silenzio della ragione.

Gli indignati più sconvolti da questo libro, furono i suoi ex compagni di redazione della rivista “Sud”, la rivista fondata e chiusa entro due anni, dal 1945 al 1947, che puntava all’indipendenza culturale, a rianimare la città e a direzionarla verso una dimensione europea. Vissero questi racconti, le storie riferite, i loro nomi pubblicati, come un tradimento che, alcuni di loro, non le perdonarono mai. La severità che Ortese espresse in queste storie, appartiene al momento del suo disincanto, successivo a quello dell’illusione creata da “Sud”, e non è altro che l’applicazione della “poetica della cattiveria” che proprio in quella redazione aveva appreso.

“…Si voleva sapere e capire tutto di questa mostruosità che appariva Napoli. Si scopriva che c’era un popolo infelice perché malato e se ne cercavano le malattie, definendo i modi di tale infelicità. Smontando il mito dell’allegria, ravvisando nei suoi canti la desolazione e il lamento dell’uomo perduto, incapace di coordinare i pensieri, comandare i nervi, prendere viva parte alla storia dell’uomo anziché esserne continuamente umiliato e oppresso. Bisognava rimuovere dall’opinione pubblica il mito terribile del sentimento chiarendo le deformazioni cui esso aveva condotto l’odierna società partenopea. Ma, soprattutto al Prunas, proclamare l’indipendenza della cultura come indispensabile procurò accuse d’irresponsabilità e tra gli amici che avevano formato la redazione, ci fu chi manifestò scontentezza e per ragioni di sistemazione personale abbandonò la redazione che soffocata dai debiti finì col chiudere. La Capria tornò alla sua vita agiata, Ghirelli a Roma Grassi a Napoli trovarono ottimi impieghi nella stampa. Compagnone si sottopose a revisionare il suo e il nostro passato e vide in Napoli ciò che è, in noi, il contrario. Prese a elencare i difetti di tutti, insultando senza risparmiare nessuno. Denunciò una pazzia e una stupidità generale senza speranza; fine della ragione. Successe che a un tratto si passò all’impassibilità e quella che doveva essere un’ingiuria diventò noia e di conseguenza un’inutilità. Così la giovinezza passò insieme ai suoi furori ed egli si ritrovò impiegato alla radio. I bei marxisti di un tempo lo annoiavano, non aveva più gioia alcuna. Nello stesso tempo un disprezzo unito alla malinconia gli imponeva di amare Rea (Domenico) la voce più legittima di Napoli, che lo ricambiava per interesse…. Rea, nella sua casa borghese di cui era fiero, comprata coi soldi del premio….. –Il silenzio della ragione.

La continuità tematica e stilistica è evidente in Silenzio a Milano (1958). Stessa severità e fermezza in questo reportage di anime, in cui il Silenzio, è quello della Stazione Centrale e dei suoi abitanti notturni dopo una qualsiasi giornata appena conclusa, quando si è consumata la sua funzione di “porta del lavoro, estuario del sangue semplice”. Il Silenzio è quello dei ragazzi ospiti del riformatorio di Arese che non riescono a far ascoltare il proprio dolore e la propria solitudine. Il Silenzio è quello dei locali notturni, di serie A o B, accomunati dalla stessa malinconia, dall’identico sconforto esistenziale dei suoi frequentatori. Il Silenzio è quello degli Alberghi per famiglie, spazi di confinamento per chi ha perso tutto. Il Silenzio è quello del disoccupato respinto, perché non riesce ad adattarsi a diventare il pezzo di un ingranaggio considerato efficiente. Il Silenzio è quello dello “Sgombero” in cui la scoperta di un mondo che non sa che farsene dei valori e dei principi sgomenta e smarrisce.

Quello che Ortese decide di raccontare è frutto di scelte personali e parziali, ma lo descrive con capacità e bellezza uniche.

“…Secondo lei -disse il fotografo- ci sarebbe qualcosa che non va, una ingiusta distribuzione del sole” “Del sole, come di ogni altro bene” “E questo, prima, non era?” “Sempre, era. Ma c’è speranza, voglio dire” “Speranza di che?” “Di mutamento. C’era dolore” “E adesso non c’è?” “È privato, signore” “Per quanto so, tutti possono lamentarsi pubblicamente” “Anche il Cristo di una pinacoteca, si lamenta” “E con ciò? ” “È un dolore ammirato” “Non capisco?” “Signore, se io ho fame, in Italia, questo fa parte del paesaggio. Se io cammino per strade eccezionalmente chiuse, in Italia, desiderando il mare, se la mia stanza è soffocante, se i rumori mi uccidono, se, in una parola, io muoio, questo riguarda esclusivamente l’ente per la conservazione del patrimonio artistico. Il diritto, in Italia, mette di buonumore, se non è scortato dalla potenza economica, anzi, il solo vero diritto sta nella potenza economica. Allora, il pensiero si perde, le parole si ritirano confuse nella gola, e la pazzia rimane il modo più compito di esprimersi, per un galantuomo.”……”E questo, a Milano non era? ” “Non come ora, almeno “…..”Uomini e donne…senza parola, muti, docili; senza verde, luce, aria; trasformati in cemento, vetro, acciaio; trasformati in lucidatrici, frigidaires, essi che magari li desiderano. Senza parola, trasformati in cose; senza più braccia, mani, volti, ma ancora caldi, incrementano la civiltà industriale. Perché l’industria ha fame, deve crescere l’industria. Cos’è un uomo, mi dica, di fronte all’industria? Ecco il nostro Dio, ecco Chicago, Milano….”……..”Si entrava in questa città per essere trasformati in cose, in cifre, o respinti. Ci tornavano in mente le parole del pazzo sul dolore proibito, comunque illegittimo, sul dolore, cioè sull’essere umano, vietato; ci tornavano in mente gli scarsi, rarissimi colloqui avuti in questa città; il senso di vergogna di fronte al pensiero, al colloquio, che avevano tutti, come di un furto alla comunità, una mostruosa perdita di tempo. Ci domandavamo se qui, e soprattutto qui, in questo suo violento tentativo di farsi moderna, scavalcando gli abissi di una educazione e una economia pastorali, l’Italia non perdeva definitivamente il suo equilibrio, non entrava in crisi.” – Una notte nella stazione

“……Sono in una parola l’Ottocento e il Duemila, la Pianura Padana e New York… Un conflitto di tendenze, di stile, in una parola di costume, e di una cosa, anche, più profonda del costume -l’eccesso del sentimento e quello della ragione-. L’architettura delle Case Albergo ha il senso di una virgola in una frase convulsa. È un segno di congiunzione tra il tempo passato e il futuro, sta tra il buon senso e l’incubo, è una raccomandazione di solidarietà e di modestia, guasta da una pretesa di fantasia, irrigidita da una volontà di giurisdizione. Alata e squallida, ariosa e monotona. Nata per proteggere, opprime; per rassicurare, spaventa; per confortare, incupisce. Dice tutto il nostro tempo: l’intenzione di assistere l’uomo, e il disprezzo misterioso dell’uomo ……. Soli assolutamente quegli uomini, come monaci e monache di un incredibile monastero, come pesci rossi in una boccia di vetro, nuotano nella pulita e disperata atmosfera di quelle stanze.” – Le piramidi di Milano.

“……Un uomo poteva essere una “cosa”. Non ci aveva mai pensato. Forse per questo lui e Masa se ne stavano sempre silenziosi, perché lo sapevano, e anche il padre lo sapeva, prima di perdersi nell’acciaio, e tutti quelli che erano come loro, senza dirlo lo sapevano. Una cosa che va e viene, ed esegue sempre quell’atto. Può avere nelle vene un dolce sangue, e nelle orecchie suoni naturali di vento o delle piccole onde del mare, e le voci dei figli cari, ma appena oltrepassa la soglia della sua abitazione, ecco è una cosa: e un ingranaggio lo afferra, e lo porta avanti e indietro, su e giù, come una ruota, per venti, trent’anni, sotto un cielo plumbeo, in mezzo a montagne d’acciaio, a marine, fiumi, torrenti d’acciaio, che bollono ai suoi piedi. E poco alla volta, egli si dimentica il mare che fa sciuf-sciaf. Egli è già diventato acciaio, prima di morire. I suoi gomiti sono acciaio, i suoi vestiti acciaio, le sue lacrime acciaio. Egli suda gocce d’acciaio. E poi muore : e lo seppelliscono nell’acciaio. “E Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza”. Così dicevano i preti. ……Ma era un blocco d’acciaio Dio? O se n’era dimenticato di quelli. Forse, era un ricordo, Dio. Un ricordo della forza com’era al momento che nacque. Poi era diventata Produzione. Al principio era come un vento e rideva. Poi era diventata tecnica, produzione. Dovunque, nell’universo, tecnica e produzione. Nulla al di fuori della tecnica e della produzione. Eppure qualcosa c’era. …bisognava stare uniti tutti, operai e intellettuali, per risalire dai pozzi della tecnica fino alla vita umana…. Poco alla volta questa idea era diventata una forte, strana persuasione, e gli andava mutando la vita di dentro. Si sentiva più tranquillo, più forte, più buono…. Ed era, ogni giorno più, come un uomo che sieda sulla riva di un fiume, per pensare, e poco alla volta la canna gli sfugge di mano, perché immerso nella contemplazione della corrente, della luce e la vita della corrente. … Era cominciato con l’Ungheria, quando s’era scoperto che anche i russi erano come hitleriani o fascisti, adoperavano le armi per imporre le idee, o gli eserciti in luogo dei libri. Era stato un momento terribile, come svegliarsi e scoprire che la terra è diventata un’altra, durante la notte il mare ha ingoiato tutte le superfici abitate, e ora è un grigio, disperato silenzio. …-Forse ci siamo sbagliati- cominciò a dire un giorno -Forse la liberazione non esiste. Nessuno la vuole, del resto- … Una cosa che c’era sempre stata, nei Sanipoli, eterna come la fedeltà al lavoro: il rispetto di sé, degli altri. Il rispetto che era anche più grande dell’amore, perché l’amore nasceva dal desiderio e ritornava desiderio, desidero di sé, degli altri, e il desiderio portava l’ambizione, la sopraffazione. E mentre seppe questa cosa, che il rispetto era la cosa più grande che si poteva offrire agli uomini, seppe che anche lui e Masa e tutti gli uomini e le donne come lui e Masa, erano uomini e donne senza peso, senza patria, senza valore, perché conoscevano il rispetto.” –Lo sgombero.

Nel 1968 il programma televisivo Rotocalco, mandò in onda un’inchiesta del regista Gianni Serra intitolata I ragazzi di Arese. Il documentario era ispirato all’omonimo racconto di Ortese. Mostrava il grande casermone con il suo campo di calcio, la mensa, gli spazi di assistenza e di lavoro, ma soprattutto la profonda tristezza e l’infelicità di quei duecento ragazzi, orfani o comunque senza famiglia, abbandonati al loro destino di solitudine. Dopo la messa in onda, la Rai ricevette la protesta dei Salesiani gestori dell’istituto, i quali sostenevano che il centro diffamato era invece perfettamente efficiente e organizzato per aiutare tutti i suoi ragazzi. Pretesero e ottennero un altro servizio che andò in onda con altre interviste e altre risposte. Ancora una volta il lavoro di Ortese, ora in aggiunta a quello del regista Serra, viene biasimato e giudicato per la sua motivazione civile e non per quella letteraria. Una dannazione e un ostracismo, una deliberata condanna all’esclusione.

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Bret Easton Ellis – Bianco e American psycho.

Bianco è una raccolta di saggi. Contiene dell’autobiografia, a partire dalla descrizione delle sue esperienze durante l’adolescenza, che mette a confronto con quelle dei millenial che denomina “generazione inetti”. Tratta di critica cinematografica e critica letteraria. Comprende la volontà di evidenziare la funzione asfissiante dei social, ragiona sul politicamente corretto che, secondo lui, sta sopprimendo la libertà di espressione.

Si apre con una prefazione dove espone il motivo che lo ha portato a scrivere il libro. Un fastidio opprimente ha preso ad assillarlo, provocato dal disgusto nei confronti della stupidità altrui: adulti che sui social condividono giudizi avventati o stupide preoccupazioni, sempre con l’incrollabile certezza di avere ragione. Un atteggiamento che considera tossico, messo in atto da una società inferocita che in un istante si offende, si scandalizza, giudica e attacca chi ha opinioni “sbagliate”. I social che parevano incoraggiare il dialogo, diventano una trappola e mirano a silenziare gli individui.

Continua la riflessione impostata sulla perdita della capacita di giudizio e buonsenso, attribuendo il vero scandalo al prevalere delle rigide reazioni -Quando una comunità si vanta delle sue diversità e della sua unicità e poi mette al bando la gente solo per come si esprime, non per incitazioni all’odio, ma semplicemente perché non ne gradisce le opinioni, ha avviato una deriva conformista e autoritaria.- Si tratta di un dettato che impone di pensare e di considerare secondo un unico punto di vista, ed è purtoppo quello nel quale si trovano oggi tutti gli ambiti, società, politica, arte, cultura.

Il verbo di Facebook – Consiste nel presentare un ritratto di se stessi, in modo da apparire più carini più amichevoli più melensi. Questo è il momento in cui nacquero i concetti di “mi piace” e “relazionabilità” che ridussero tutti noi, per essere accettati, a seguire un codice morale positivo secondo cui tutto deve piacere, ogni voce deve essere rispettata e chiunque ha opinioni negative o impopolari è escluso dalla conversazione e spietatamente umiliato (perdendo followers o venendo bloccato). –

L’atteggiamento permissivo dei genitori con figli nati tra gli anni 60/70, era determinato dalla mancanza di controllo, da una mancata consapevolezza di cosa fosse rischioso fisicamente, emotivamente e culturalmente. Oggi un’idea di fragilità estrema, impedisce al bambino di valutare in proprio il rischio in qualsivoglia situazione. Millenial o Generazione inetti – Ipersensibili con la convinzione che tutto sia loro dovuto, di essere sempre nel giusto, con la tendenza a reagire in modo spropositato, con positività passivo-aggressiva. Tutto a causa dei loro genitori elicottero iperprotettivi che ne hanno controllato ogni mossa. Quei genitori (boomer o generazione x) che a loro volta sentivano di non essere stati amati dai loro genitori e di conseguenza hanno soffocato i loro figli, senza insegnare loro come affrontare le dure prove della vita e come funziona davvero il mondo: non si piace a tutti, quella tal persona non ricambierà il tuo amore, i bambini sono crudeli, il lavoro fa schifo, è dura essere bravi in qualcosa, non hai talento, la gente soffre, invecchia, muore. E la risposta a tutto questo è stata che la generazione inetti è collassata nel sentimentalismo e ha creato una narrazione vittimista anziché confrontarsi con quelle dure realtà, affrontarle, elaborarle, per andare avanti meglio attrezzati. –

Vittimismo – Sei una persona bianca, intelligente a cui succede di essere stata traumatizzata da qualcosa al punto di parlare di te stessa come di una “sopravvissuta”, probabilmente dovresti chiedere aiuto. Se sei un adulto di origini caucasiche che non può leggere Shakespeare o Melville o Toni Morrison perché questo potrebbe far scattare qualcosa che finirebbe col feriti e perché testi simili potrebbero pregiudicare la tua speranza di autodefinirti per mezzo della tua vittimizzazione, allora hai bisogno di uno specialista. Se pensi di subire un’aggressione quando un tizio ubriaco cerca di metterti le mani addosso durante una festa, o qualche coglione ti si struscia addosso mentre fate la coda, o qualcuno ti identifica correttamente col tuo genere sessuale e tu consideri tutto ciò un enorme insulto sociale, devi farti aiutare da un professionista. Se sei afflitto dalle conseguenze di un evento traumatico avvenuto anni prima, hai bisogno di cure. Ma fare la vittima è come una droga. Ti senti così bene, attiri così tanto l’attenzione del prossimo e ti fa sentire perfino importante mentre mostri le tue ferite. L’onnipresente epidemia di autovittimizzazione in cui definisci te stesso per mezzo di una cosa negativa, è a tutti gli effetti una malattia. Il fatto che non si possa sentire una battuta o vedere un’immagine e commentare ogni cosa come razzista e sessista, è una psicosi che la nostra cultura ha incoraggiato. –

L’opera d’arte -Bisogna essere consapevoli del fatto che ogni opera d’arte è il prodotto dell’immaginazione umana, creata come qualsiasi altra cosa da individui imperfetti e pieni di mancanze. Che si tratti della brutalità di De Sade o dell’antisemitismo di Celine o della misoginia di Mailer o del gusto per le minorenni di Polanski, sono sempre stato in grado di separare l’arte da chi l’aveva creata e di esaminarla, apprezzarla, oppure no, da un punto di vista estetico. Di fronte all’orribile affermarsi della relazionabilità, la presunta innocuita dell’opinione di massa, l’ideologia secondo cui tutti dovrebbero pensarla allo stesso modo, nel “migliore” dei modi, ricordo di non aver mai voluto ciò che richiede la cultura del nostro tempo. Anziché rispetto, gentilezza, inclusione, innocuita, amabilità e decenza, ciò che volevo era essere disturbato dalle cose. Volevo essere messo alla prova, calarmi nei panni degli altri, vedere le cose coi loro occhi, specie se si trattava di outsider, mostri e freak. Volevo essere scioccato. Volevo cambiare la mia opinione. Volevo essere sconvolto e persino ferito dall’arte. Volevo che qualcuno mi annichilisse con la crudeltà della sua visione del mondo, si trattasse di Shakespeare o Scorsese, Joan Didion o Dennis Cooper. Tutto questo mi donò l’empatia. Mi aiutò a capire che esisteva un altro mondo oltre il mio. –

Si dichiara disinteressato alla politica ma muove critiche pesanti alla sinistra, considerando che strutturalmente dovrebbe avere maggior sensibilità verso le lotte per i diritti di uguaglianza. -Il Partito democratico è intriso di superiorità morale, intollerante e autoritario, distaccato dalla realtà, manca di coerenza ideologica.- Esprime fastidio per l’indignazione liberale che mancherebbe di neutralità, di capacità di mettersi nei panni dell’altro, di non essere in grado di ammettere il punto di vista altrui reagendo in modo eccessivo e isterico. -Se guardi tutto solo attraverso le lenti del tuo partito e della tua appartenenza, se sei capace di stare nella stessa stanza solo con gente che la pensa e che vota come te, questo non fa solo di te una persona poco curiosa e tendente all’ipersemplificazione, passiva-aggressiva, irrigidita nella presunzione di incarnare la superiorità morale, senza che tu ti chieda mai se per caso, agli occhi degli altri, non incarni invece l’inferiorità.-

Le molte riflessioni espresse in questo libro sono ottimi spunti per discutere. Tuttavia alcune, per come sono dichiarate, danno l’impressione di essere sassolini che si è voluto togliere dalle scarpe con l’intenzione di voler l’ultima parola per un rancore personale, anche nei confronti di persone precise (come David Foster Wallace). Dal punto di vista politico, lascia perplessi la difesa di certi leader dell’estrema destra razzista (forse per percorrere ostinatamente la corrente anticonformista intrapresa?), lascia perplessità anche il modo in cui accusa di censura il politicamente corretto. Il suo sembra il risentimento di un privilegiato che, con tutti i vantaggi della sua posizione, di ceto e istruzione, percepisce come preoccupante limitazione epocale ciò che in realtà è una battaglia linguistica che mira al più scrupoloso egualitarismo. Ammetterlo non significa che chi usa termini perfetti sia migliore di altri, ma non si può sostenere che la sfida a qualsivoglia tabù sia -Fare dell’umorismo feroce e comportarsi male-. Non a caso vengono in mente le parole di David Foster Wallace suo più avverso rivale – La cosa grandiosa dell’ironia è che seziona ogni cosa e poi la guarda dall’alto per mostrarne le tare, le ipocrisie, le scopiazzature… Il sarcasmo, la parodia, l’assurdo e l’ironia sono modi efficaci di smascherare la realtà e mostrarne la sgradevolezza, ma il problema è: una volta che abbiamo fatto saltare le regole dell’arte, e dopo che l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale, a quel punto che facciamo? L’ironia è utile per sfatare le illusioni, ma in America le illusioni le abbiamo già sfatate e ri-sfatate… L’ironia e il cinismo postmoderni sono ormai fini a se stessi, sono il parametro della sofisticatezza hip e dell’abilità letteraria. Pochi artisti osano parlare di altri modi di porsi per risolvere ciò che non va, perché temono di sembrare sentimentali e ingenui agli occhi degli ironisti stanchi di tutto. L’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia. Non c’è dubbio che i primi postmodernisti e ironisti e anarchici e assurdisti abbiano prodotto cose egregie, ma il guizzo non si passa da una generazione all’altra come il testimone della staffetta, il guizzo è personale, idiosincratico… Dai giorni di gloria del postmoderno abbiamo ereditato sarcasmo, cinismo, una posa annoiata maniaco-depressiva, sospetto nei confronti di ogni autorità, sospetto di ogni limite posto alle nostre azioni …
Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio…Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore.-

American psycho è un romanzo sul nulla e sul vuoto di un mondo senza senso. Un ambiente fatto di individui privi di connotazioni, tanto da accettare di farsi chiamare con nomi diversi dal proprio, confondendosi tra di loro. Personalità nulle incapaci di emozionarsi, che si limitano alla superficie di qualsiasi cosa, all’esteriorità delle merci tutte etichettate. I marchi sono i simboli dell’omologazione, determinano il comportamento e sostituiscono gli ideali. Gli elenchi di marchi di vestiti, di scarpe, di accessori (ma quante riviste di moda avrà sfogliato per riportarne così tanti?), gli elenchi di cibi (alcuni li ho cercati per verificare se fossero veri piatti gourmet perché mi apparivano alquanto improbabili, tipo, radicchio con calamari organici (?), salsiccia di capesante, pizza al dentice, lasagne con melanzane e caprino [Gesù santissimo!]). Elenchi che ostentano ricchezza, sciorinati con insistenza ossessiva, segnano intenzionalmente il senso di un inganno che oscura la realtà autentica. Tutta questa modalità passiva è ribaltata dalla violenza, nel tentativo di provare emozioni e recuperare un’identità sottomessa agli schemi. La violenza è feroce, folle, senza motivo. Suscita disgusto ma è anche grottesca, a volte comica, quindi priva il lettore di provare pietà. Bateman non è in grado di distinguere il bene dal male perché non è in grado di sentire nulla. Bateman guarda quotidianamente un programma televisivo del quale fornisce sempre l’argomento, significa cha la televisione scandisce le sue giornate, dando preminenza al virtuale sul reale. La sua è una spersonalizzazione graduale che lo porta verso lo sdoppiamento, come se a un certo punto si guardasse dall’esterno e non fosse più in grado di controllarsi. Lo sdoppiamento è dimostrato anche nel manifestarsi di una lucidità mentale nei capitoli dedicati alle recensioni musicali che si contrappongono alla follia omicida. Per rafforzare questo disturbo di compresenza, l’autore utilizza anche il cambio di tecnica narrativa, quando l’io narrante si sdoppia e per raccontare un avvenimento diventa narratore esterno, per poi, prima di concludere, ritornare al punto di vista del narratore interno. Pochi sono gli istanti in cui Bateman riesce a reagire autenticamente suscitando la tristezza di tutto questo vuoto, quando è davanti all’urinatoio e fissa una crepa e si dice che se vi scomparisse dentro, molto probabilmente nessuno se ne accorgerebbe, anzi, qualcuno potrebbe anche provare una sensazione si sollievo. Oppure quando la sua segretaria gli dichiara i suoi sentimenti. Ma per Bateman, che per un attimo prova a illudersi, è impossibile riacquisire il senso della realtà andato perduto. Il romanzo che comincia con la frase dantesca “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”, si conclude con la frase di un cartello dove sta scritto “Questa non è l’uscita”.

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Fëdor Dostoevskij – L’idiota

Hans Holbein il Giovane – Cristo morto (1521)

L’iconografia religiosa deve suscitare conforto. L’osservatore che piange la perdita e prova dolore dinnanzi a questa terribile prova, deve sentire il sollievo del senso di salvezza che essa ingenera. Malgrado ciò, questo corpo inumato in un loculo, un luogo di ristrette proporzioni, limitato, dove lo sguardo non può estendersi, non c’è un cielo, non c’è un orizzonte, non c’è una linea di fuga, un corpo emaciato, livido e prossimo alla decomposizione, presenta una sofferenza troppo umana e difficile da sostenere. Il suo realismo è troppo. Di fronte ad esso ci si dispera perché lascia poca speranza di resurrezione.

Nel 1526 Hans Holbein il Giovane, con in tasca una lettera di raccomandazione scritta da Erasmo da Rotterdam (“qui le arti sentono il gelo”), abbandona la Svizzera e si reca in Inghilterra. Solo cinque anni prima aveva dipinto questa tavola ma, dopo la crisi provocata dalla Riforma, lui e tanti artisti del nord Europa furono coinvolti nella questione: se la pittura dovesse o meno continuare ad esistere. Molti protestanti erano contrari alle pitture e alle statue nelle chiese perché li consideravano un segno di idolatria. Così Hans Holbein il Giovane dovette abbandonare tutto quello che il suo straordinario ingegno aveva assimilato studiando le conquiste degli artisti sia nordici che italiani. Non poteva più dipingere né Cristi né Madonne, non più drammaticità, nulla che colpisca l’occhio, neanche la mirabile abilità nel rilievo dei particolari.

La predella con Cristo morto era destinata, con altri dipinti, a decorare un’altare. L’insieme fu smembrato e finì nella collezione del museo di Basilea, qui nel 1867 la vide Dostoevskij. Come scrisse sua moglie Anna, fu per lui un’esperienza terrificante. Rimase ad osservarla per molto tempo con un’espressione di spavento, una tensione tale, da temere che fosse prossimo ad una delle sue crisi epilettiche. Come non pensare alla toccante nota che aveva scritto nell’aprile del 1864, accanto al cadavere di Maša la sua prima moglie : _”Maša distesa sulla tavola. La rivedrò io mai? Amare l’uomo come se stessi, secondo il comandamento di Cristo, non è possibile. Sulla terra la legge della personalità è d’impaccio. L’io è di ostacolo. Cristo soltanto poteva farlo, ma Cristo era l’ideale a cui l’uomo tende, e deve tendere, per legge di natura. Tuttavia, dopo la comparsa di Cristo, come ideale dell’uomo incarnato, è diventato chiaro come il giorno che l’evoluzione ultima e suprema della personalità individuale (e questo proprio al culmine dell’evoluzione, anzi nel momento stesso in cui il fine dell’evoluzione sarà raggiunto) in cui l’uomo riconosca, si renda conto e si convinca con tutta la forza della sua natura che l’impiego più alto che egli possa fare della sua individualità, nel momento in cui il suo io abbia raggiunto la pienezza dello sviluppo, consiste nel distruggere questo io, nel donarlo interamente a tutti e a ciascuno indivisibilmente e senza riserve. E in ciò consiste la felicità più sublime……appunto questo è il paradiso di Cristo….Ma, almeno secondo la mia facoltà di giudizio, sarebbe assolutamente insensato raggiungere uno scopo così alto se, al momento del raggiungimento di tale fine, tutto dovesse spegnersi e scomparire, e cioè se non ci fosse più vita per l’uomo dopo averlo raggiunto. Ne consegue che esiste una vita futura, il paradiso.”_

Davanti al Cristo, alle riflessioni sull’umano e l’immortalità, si aggiungono anche quelle sulle dinamiche più sconcertanti tra fede e ateismo. I suoi appunti degli anni sessanta dell’ottocento, sono fitti di riflessioni sul nichilismo, sul cristianesimo e sul socialismo. Le antinomie tra le quali si muove, forniscono elementi essenziali per comprendere L’idiota, tanto quanto le note in cui riporta accenni alla cronaca dell’epoca e ai delitti celebri che in quegli anni colpirono l’opinione pubblica russa. Dostoevskij, con la sua capacità di leggere in un fatto di cronaca i segni di un destino universale, li interpretò come la manifestazione pressante dello spirito di un’epoca.

L’idea principale è quella di rappresentare un uomo positivamente bello. Il bello ideale è Cristo. Il principe Myskin è bello, nel suo senso interiore. Possiede un’intelligenza spirituale, un’intelligenza del cuore, con la quale comprende la realtà e gli altri in maniera profonda. La sua purezza si confronta con gli aspetti problematici dei rapporti con gli altri personaggi, nei conflitti, le passioni, gli impeti. La bellezza del principe è portatrice dell’amore cristiano, ciononostante, non riuscirà a salvare né lui né chi gli sta attorno dal male presente ovunque. Nessuno si salva, è il riconoscimento del carattere utopico del precetto evangelico “Amare l’uomo come se stesso”. Il nichilismo, nell’opera di Dostoevskij, non è l’opposto della fede, ma un momento del suo cammino. Dostoevskij ha detto di essere figlio del suo tempo, della miscredenza e del dubbio. La fede è un’angoscia continua quando si avverte una straziante sete di credere. È una lotta accanita quando si persegue la convinzione che il mondo sarà salvato dalla bellezza. “Questa bellezza è salute, armonia, regno della tranquillità, è ciò di cui più della scienza, più del pane, l’umanità ha bisogno per sopravvivere. La bellezza, il principio estetico come dicono i filosofi, o il principio morale come anche lo chiamano, o la ricerca di Dio, come direi io semplicemente, è una forza che muove le nazioni”.

Considerando la sua personalità e le sue esperienze, una su tutte, la condanna a morte revocata all’ultimo momento (era una messa in scena fatta apposta per intimidire) e commutata in quattro anni di lavori forzati in Siberia, per certi critici, come Nabokov, egli risulta morboso e ossessionato, un fanatico religioso. Non ha neppure suscitato le simpatie della critica progressista, quando si è dichiarato convinto che il bene sia irraggiungibile per poter credere in utopie rivolte al futuro. Dostoevskij era un impasto di contraddizioni: genialità artistica, grande afflato religioso, meschinerie, posizioni reazionarie, pregiudizi anti-ebraici. Nessuno come lui ha però descritto quel vortice che inghiotte e che rappresenta “l’anima russa” (in realtà l’anima umana), così..

“…Occupata a parlare, rivelare, confessare lacerazioni per estrarre peccati indecifrabili, sul fondo di noi stessi. …. Mentre l’ascoltiamo, la nostra confusione si placa lentamente, ricevendo rivelazioni che di norma solo la forza della vita al suo massimo può spingere verso di noi.”

Virginia Woolf -L’anima russa.