Senza categoria

Anatolij Mariengof Romanzo senza bugie – I cinici.

Anatolij Mariengof

Anatolij Mariengof e Sergej Esenin si conobbero nel 1919 e da subito stabilirono un’amicizia che li rese inseparabili per quattro anni. Condivisero tutto, propositi, viaggi, guadagni, casa, persino lo stesso letto. Nel 1923 il loro rapporto si raffreddò, cessò la collaborazione creativa e si separarono, per poi riavvicinarsi poco prima del suicidio di Esenin nel 1925. Il talento di Mariengof non era uguale a quello di Esenin ma neppure inferiore, quanto fosse elevata la sua qualità letteraria si può accertare in Romanzo senza bugie scritto nel 1926 per rispondere agli attacchi che lo accusavano indirettamente della morte del poeta. Scritto in memoria dell’amico scatenò una rabbia senza limiti, venne accusato di contraffazione e falsificazione dei fatti, di atteggiamento blasfemo nei confronti della memoria del compianto poeta. Il romanzo sotto una maschera di spudoratezza in realtà possiede un atteggiamento riverente e poetico, è davvero un documento della vita letteraria e reale di Esenin e allo stesso tempo è difficile non percepire quanto sia stato tragico, personalmente per Mariengof, l’epilogo della storia vissuta.

Lavorando come segretario letterario della casa editrice del Comitato Esecutivo Centrale incontra Esenin che era già abbastanza famoso, subito, insieme ai poeti e amici Ivnev, Shershenevich, Kusikov, Jakulov e Erdman, fondano il gruppo degli Immaginisti. Si riunivavano al caffè letterario La stalla di Pegaso dove avvenivano dispute su cinema teatro e pittura, pubblicavano una rivista, conducevano una libreria e una casa editrice. Gli Immaginisti sono degli sperimentatori, innovatori della forma della strofa e della rima riuscendo ad ottenere grande espressività. La parola imažinisty la presero da una rivista di poesia americana che parlava di Ezra Pound e di altri poeti proclamatisi “imaginistes”. È molto probabile che non abbiano mai letto le poesie di quegli autori perché la più grande influenza venne loro da Majakovskij e dal Futurismo. Il loro immaginismo vuole esaltare l’immagine autonoma dal contenuto, puntare sul metaforico a catena, ciò che più conta è trovare l’analoga affinità di cose distanti, cancellare le differenze tra le cose, far salire quel linguaggio della somiglianza che è poi il sostrato di tutti i poeti. Da un punto di vista strutturale è un’accentuazione barocca del Futurismo.

**Parlando dell’immagine, del suo posto nella poesia, della rinascita della grande arte verbale, Esenin aveva già una sua classificazione delle immagini. Quelle statiche le chiamava dighe, quelle dinamiche e mobili le chiamava invece navi, collocandole al di sopra delle prime; parlava delle qualità decorative del nostro alfabeto, delle immagini simboliche della vita di ogni giorno, del galletto-banderuola sul tetto delle case contadine, dei diversi disegni delle stoffe, di quel seme d’immagine ch’era in tutti gli indovinelli, proverbi, filastrocche.- (pag. 11)

**Esenin amava sempre rivoltare la parola, restituirla al suo senso primitivo. Nel loro secolare cammino le parole si sono consunte. Alcune le abbiamo leccate con le nostre lingue sino a scoprirvi splendide figure metaforiche, in altre un’immagine sonora, in altre ancora un senso sottile e beffardo.- (pag.17).

**Stavamo ore e ore sui versi, e insieme gettavamo le basi della teoria dell’immaginismo. Il lavoro sulla teoria ci introdusse nei labirinti fantastici della filologia. Creammo una scienza fatta in casa, scoprendo e mettendo a nudo nelle parole radici e tronchi figurati, curiosi e a volte sostanziali. Esenin urlava: ratto! -Rispondevo: grattare. -E adesso da grano.- Grandine, granita. -Ma è bella anche l’immagine dentro la radice: sorso-sorgente; riga-rigagnolo….ci sembrava che una volta dimostrata la sedimentazione delle immagini nell’infanzia della lingua, avremmo reso inoppugnabile la nostra teoria…….. Sulle spalle il mio frugoletto di due anni Kirillka, guardiamo entrambi il sole rosso fuoco che sta tramontando. Kirill dice raggiante: Palla. Guarda ancora e muta parere -Sfera. E alla fine, molto sicuro della sua congettura proferisce: Orologio. Che immagini. Che chiarezza, una conferma delle nostre formazioni verbali. -(pag.58)

Esenin e Mariengof

Come personaggi, il ghigno cinico e brutale li rende simili a espressionisti e dada anche per il senso della distruzione totale della vecchia cultura, del passato, per il senso della fine e tramonto della cultura. Si dichiarano profetici, usano un tono sfrontato e irriverente, sono megalomani e narcisi. Facevano scherzi macabri annunciando morti, cambiavano i nomi alle strade, coprivano di citazioni blasfeme i muri del Santo Monastero di Mosca, le letture pubbliche si trasformavano in controversie violente, accompagnate da reciproci attacchi offensivi tra oratori pubblico e stampa. Esenin aveva un fervore eroico che non è negli altri, lo aveva già da prima e l’Immaginismo accentua la sua tendenza dello scavezzacollo, del “chuligan” invasato e furioso e i suoi versi caleidoscopici con il gusto della distruzione.

**Del teppismo di Esenin sono responsabili innanzitutto i critici, poi i lettori e chi affollava le serate letterarie, i caffè e i club. Ancora prima delle spacconate letterarie degli immaginisti, la stampa aveva affibbiato questa parola, poi ne fece un’etichetta che cominciò a ripetersi. Fu la critica a suggerire a Esenin di creare una sua biografia di teppista e recitare la parte di teppista nella poesia e nella vita….. Non so se Esenin trasformasse più spesso la vita in poesia, o la poesia in vita. La maschera diventava per lui il volto, il volto la maschera.-(pag. 51)

Il motivo dell’allontanamento tra i due non fu un litigio ma, spiega Mariengof, il venir meno di quell’energia e quell’identificazione che li aveva legati. Le loro strade si dividono, Mariengof si sposa, lo fa anche Esenin per la terza volta, adesso con Isadora Duncan. Con lei viaggia per l’Europa e gli Stati Uniti aumentando la sua inclinazione teppista. Girava vestito in smoking con il cilindro e le scarpe lucide, tre cose impeccabili che avevano su di lui l’aria di una mascherata, lui lo sapeva, cedergli era stato un tradimento, era stato rinnegare la propria interiorità mugicca.

**L’Europa fa schifo noia tremenda da vita insulsa, per l’abbondanza ho smesso di bere. Malgrado tutto sia lucido questo è un cimitero, il continente è una cripta sono tutti morti da tempo. È di gran moda il dollaro, dell’arte invece se ne fregano, la forma più elevata è il music-hall. Noi saremo anche dei mendicanti, da noi ci sarà anche la fame, il freddo e il cannibalismo, ma almeno abbiamo un’anima.-(pag.115)

**Ed egli era così intelligente da capire, una volta in Europa, tutto il carattere antiquato, il logorio e il disfacimento delle proprie convinzioni, e di non essere sufficientemente fermo e deciso per rifiutarle, per trovare un nuovo mondo interiore.-(pag. 113).

Esenin torna a casa con un profondo senso di insofferenza, consapevole dell’avanzata della civiltà meccanica che porta rovina al mondo patriarcale del villaggio, nelle poesie piange la vecchia Russia. Oppure scrive poesie di adeguamento per capire il nuovo ma continua come una ricaduta il distacco dalla realtà, con continui presagi di morte, di gusto per l’autosarcasmo e disgusto per la notorietà. Decide allora di andare nel Caucaso che ha ispirato molti poeti, con il desiderio di staccarsi dalle bettole, ma i temi sono sempre quelli.

**Sul treno che li deve portare nel Caucaso dal finestrino osservano uno spettacolo commovente. Nella steppa un puledro pazzo di paura galoppava a fianco della locomotiva. Esenin urlando a squarciagola incoraggiava e spronava il cavallo e i due cavalli, quello vero e quello d’acciaio, per un tratto restarono alla pari. Poi il quadrupede cominciò a restare indietro. Esenin non era più lui, scrisse una lettera a una ragazza che gli piaceva descrivendole la scena. Per lui il puledro vinto era la tangibile cara e morente immagine della campagna.-(pag. 74)

Esenin sa di essere del passato, di aver sciupato la vita, di aver tradito il mondo contadino per la bettola il cilindro e le scarpe di vernice, di aver sviato la verità mugicca, di incarnare la morte di una civiltà. Il suicidio è l’unica cosa che distingue il poeta dalle piante e dalle bestie.

I cinici è incentrato su una coppia, Vladimir e Olga, e descrive in generale la vita del paese dal 1918 al 1924. Il romanzo fu vietato dalla revisione delle autorità di controllo ma riuscì ad essere pubblicato in Germania dando il via alla persecuzione di Mariengof, sostenuta anche dalla Società degli scrittori alla quale egli scrisse una lettera indignata. Poi, piegatosi alla pressione, si pentì pubblicamente per il suo romanzo sul Giornale letterario del novembre 1929. Nella prefazione all’edizione francese Seuil, Josif Brodskij lo ha definito una delle opere più innovative nella letteratura russa del xx secolo sia nello stile che nella struttura. La principale caratteristica strutturale è l’assemblaggio che alterna elementi di narrazione artistica con elementi documentari, cioè con inserti di citazioni da giornali, annunci, estratti di decreti governativi. Come modo può essere paragonato alla tecnica multidimensionale di Dos Passos, in cui trame simultanee si intersecano con titoli di quotidiani, versi di canzonette e notizie di cronaca, oppure alle idee di montaggio delle attrazioni di Eisenstein che per catturare l’attenzione del pubblico e per spingerlo alla riflessione, inserisce sequenze estranee al racconto con immagini che non hanno significato in sé ma possiedono una valenza metaforica in relazione al contesto principale. Oppure ancora ai fotomontaggi di Rodchenko, realizzati con collage che combinano testo e immagine. Nel romanzo l’argomento degli inserti riguarda principalmente la guerra, le notizie dal fronte e soprattutto i razionamenti, l’esaurimento, la mancanza di cibo. La fame viene descritta in un crescendo sempre più drammatico fino agli episodi di cannibalismo e necrofagia. I dettagli naturalistici servono a scioccare e fanno parte degli inserti “oggettivi”, quelli della vita dei protagonisti sono gli inserti “soggettivi”. Questa tecnica compositiva permette di vedere come gli eventi oggettivi ridisegnano quelli soggettivi. Ad esempio: un articolo di giornale parla della preparazione della carne di cavallo come soluzione contro la fame per i due milioni di moscoviti, segue la cena di Vladimir e Olga dove viene servita carne di castrato commentata da Vladimir senza ottimismo, perché secondo lui la raccolta di carne di cavallo è solo il massacro di cavalli utili al lavoro. Oppure alla paradossale iniziativa dei soviet del popolo di erigere monumenti, fa da contrappunto l’assurda preoccupazione di Olga di procurare calzini pesanti all’amante che deve partire per il fronte. Per acquistarli al mercato in una gelida giornata si fa accompagnare da Vladimir che, non avendo vestiti sufficientemente pesanti, deve prima indossare mutande da donna in lana d’angora lilla e adorne di nastri. All’inizio del racconto, subito dopo gli eventi rivoluzionari, le basi dello stato sono state ristrutturate e la vecchia vita rovesciata, adesso gli amanti se si fanno regali portano in dono sacchi di farina, Vladimir invece porta a Olga dei fiori, segno di un romanticismo vecchio stile. Questo è uno degli elementi che perpetuano per sopravvivere, per non partecipare ai tragici problemi quotidiani, che tuttavia esistono e che proporzionalmente accrescono la loro ironia sulla vita. Gli eroi di Mariengof non sono cinici, sono eroi romantici, sono il passato calpestato consapevole di non avere speranza, quel che fanno, combinare ironia con tragedia, violare norme etiche e culturali, non riesce a liberarli dalla sofferenza morale che provano. Come una maschera hanno indossato la provocazione per difendersi ma sarà proprio questa, quando qualcosa sta migliorando, che distruggerà loro stessi

Pubblicità
Senza categoria

Daniil Charms -Casi- Racconti di anni diversi, materiali pseudo-autobiografici, lettere, diari, scritti teorici.

“A me interessano solo le sciocchezze, solo ciò che non ha alcun significato pratico. La vita mi interessa solo nel suo manifestarsi assurdo. Eroismo, pathos, ardimento, moralità, commozione e azzardo sono parole e sentimenti che mi sono odiosi. Ma comprendo perfettamente e ammiro: entusiasmo ed esaltazione, ispirazione e disperazione, passione e riservatezza, dissolutezza e castità, tristezza e dolore, gioia e riso”.

Precoce nella poesia, quando ha vent’anni si precisano le sue inclinazioni letterarie che sono quelle dello sperimentalismo che punta ai valori puramente fonetici della parola.

Andava/ una fanciulla/ portando/ un ritratto/ sul ritratto/ c’era un cornetta./ Al cornetta/ al posto/ delle braccia/ sulla guancia/ pendeva/ una prefettizia/ e nella tasca/ della prefettizia/ si muoveva/ la mano. (Passeggiata 1926-1928?)

Compone per bambini racconti prose e liriche e insieme ad altri poeti fonda nel 1926 il gruppo letterario-teatrale Oberiu. Le serate degli oberiuty sono enigmatiche e provocatorie, suscitano le violente reazioni del pubblico della stampa e delle autorità che lo arrestano una prima volta nel ’31 e lo costringono al confino. L’impossibilità a pubblicare ha gravi conseguenze non solo per la sua situazione economica. Nel 1941 viene arrestato nuovamente e dopo umilianti costrizioni, obbligato a ritrattare e ripudiare ogni cosa scritta e le proprie idee. Una vera e propria abiura. Sarà internato in un ospedale psichiatrico, dove muore di fame a trentasette anni, nella Leningrado assediata dall’invasione tedesca.

La spinta creativa che aveva caratterizzato in Russia lo sviluppo delle cosiddette avanguardie storiche, si scontra con una struttura sociale e politica rigida. Se da un lato il Futurismo con Majakovskij tenta un esperimento che sia rivoluzionario e al tempo stesso ufficiale, ogni sperimentalismo incontra ostacoli e proibizionismo e la critica è sempre più spesso condanna e intimidazione. Il sospetto e la minaccia diventano una condizione quotidiana del vivere, ed è quello che sta dietro le pagine di Charms. La sua prosa passa dalla fase sperimentale degli anni ’20 a una fase di ricerca di forme più complesse, nel mezzo, durante gli anni ’30 c’è un momento tradizionale, una fase di crisi o di assestamento intorno a nuclei problematici i cui temi sono: sul problema della conoscenza e del rapporto con il mondo, l’assurdo come risultato dell’indagine conoscitiva e la tensione verso il divino come possibilità per superare l’assurdo.

Scrive poesie che testimoniano la ricerca sulle possibilità espressive del ritmo e del suono, su una componente giocosa vicina alle cantilene e alle filastrocche, oppure poesie dialogiche dal breve domanda-risposta

Dalle diverse sciagure/ preserva Iddio? / Risposta:/ Preserva e addirittura / nelle sue mani tutta la vita è più sicura.

Oppure strutture teatrali dove le varie contaminazioni diventano qui una scelta e materializzano l’estetica charmisiana, vale a dire la moltiplicazione dei punti di vista, lo sconvolgimento delle gerarchie, la volontà di colpire lo spettatore con mezzi diversi: massima condensazione poetica, svuotamento di senso, contaminazione tra poesia e teatro, testo e vita quotidiana, rappresentazione dell’assurdo. È il preannuncio con vent’anni di anticipo di Beckett e Ionesco.

Il repertorio spazia tra la cronaca giornalistica il pettegolezzo di strada il verbale. La forma miniaturizzata si presta particolarmente alla concentrazione dei fatti narrati rovesciandosi nel suo opposto, in quei racconti dove non succede niente e dove viene annullato il finale. Oppure di eventi anche troppo notevoli, di fatti eccezionali con uccisioni, amputazioni, incidenti, arresti, presentati come normali e dove dall’eccesso si passa allo smorzamento.

I rapporti di causa-effetto sono particolari, alcune sequenze non hanno alcuna causa, il caso è significativo proprio perché è assolutamente arbitrario. Può esserci un legame tra minuscoli fatti indipendenti oppure fatti straordinari sono collocati uno dopo l’altro senza motivo, il legame è preteso da motivazioni assurde e ignote. Il registro nell’impostazione del racconto è quello dello straniamento, il narratore è emozionalmente assente, il tono neutrale della narrazione contrasta particolarmente con gli episodi di violenza sempre immotivata e insensata.

Le sopraffazioni privano di significato la violenza stessa, poiché in un mondo disumanizzato anche la crudeltà perde i connotati del dolore e si riduce a puro gesto meccanico.

Il grottesco oscilla tra il tragico e il comico tra humour e incubo

è una presa di posizione, unica visione possibile di un reale non più leggibile. È un’illusione considerare che il reale sia strutturato in modo comprensibile, non c’è niente da comprendere.

Il tentativo del poeta con i suoi scritti teorici di mettersi in relazione con il mondo per registrarlo e misurarlo, evidenzia che se l’unico strumento conoscitivo a disposizione è la parola si tratta di un’arma assai povera. La forma intelligibile del mondo si sottrae a qualsiasi logica e razionalità, ci sono solo frammenti che si lasciano vedere ma non si ricompongono in un tutto dotato di senso. Charms è sempre stato attratto dai procedimenti della conoscenza, dalla logica e i suoi segni, dai simboli in cui la conoscenza si cristallizza

ma la sua indagine è sempre ironica, perché dopo ogni tentativo di appropriazione del reale c’è la certezza all’impossibilità della conoscenza. Il “caso” è la conseguenza di un principio, l’assurdo è l’evidenza dei fatti. L’unica possibilità è nella fede, in qualcosa che superi il piano del plausibile, il miracolo. Succede però che se in Dostoevskij la grazia che scende su Raskolnikov è connessa alla sua colpa da un legame di necessità, in Charms c’è una morte orribile ma senza senso di colpa del protagonista e proprio per questo la sua redenzione improbabile e il miracolo non può compiersi malgrado la disperata volontà di fede che leggiamo nelle pagine del suo diario.

a cura di Rosanna Giaquinta
Bisogna scrivere versi tali che a gettare una poesia contro la finestra il vetro si deve rompere. (autoritratto)
Senza categoria

Charles Baudelaire

Non credeva nel progresso perché riteneva che atrofizzasse la parte spirituale di noi. Non era attratto dal bene dell’umanità e sosteneva che la rovina avverrà per avvilimento dei cuori. Antilluminista, detestava Rousseau e disprezzava Voltaire “falso genio che non vede il mistero in niente”. Antiromantico, osservava il proprio tempo da poeta traendone però più motivi di protesta che di poesia. Antidemocratico, dopo un giovanile ribollimento rivoluzionario divenne antiprogressista fino all’insolenza. La poesia era il mezzo per esprimere tutto se stesso, pensava in forma di poesia anche se questa non gli bastava, non riusciva a dire tutto, ecco il motivo degli scritti critici, dei progetti di romanzi, le novelle, le lettere, tutte le sue pagine sono nell’insieme parti vive di uno scambio e di un flusso in cui l’uno mantiene l’altro in equilibrio. I progetti per le opere “Razzi” e “Il mio cuore messo a nudo” dovevano raccogliere le sue dichiarazioni più violente per fare scandalo, sembravano, date le espressioni di entusiasmo con cui li sosteneva, le opere cui lui teneva di più. “Se un giorno verrà pubblicato, Le Confessioni di Rousseau impallidiranno al confronto”. Un libro tanto sognato, il libro dei rancori, sulla sua educazione, su come si erano formati i suoi sentimenti, le sue idee e la sua insolenza, per il bisogno di vendicarsi, per sfidare la società, gli idoli e i miti, la morale. La bellezza di questa impresa è che fallì. Proprio per questo gli scritti conservano quell’autenticità che avrebbero perso se si fosse compiuta, avrebbero rappresentato un falso rispetto alle intenzioni dell’autore. I pensieri, le annotazioni, le confessioni, le denunce d’imbecillità, le citazioni, i giudizi, tutto sembra scritto al di là dei confini dove si trovano le opere belle e perfette.

Il senso di solitudine è una conseguenza inevitabile di una rottura ispirata dall’orrore e dal disgusto universale, che si apre agli incubi, alle sofferenze e all’immaginazione. L’antilluminismo gli consentì di entrare in campi dove fosse possibile attaccare le certezze della scienza, attraverso l’immaginazione moltiplicata dall’uso di droghe, per viaggi in paesi dove la personalità scompare e il circostante si confonde, in un’ebbrezza vertiginosa fino a ritrovarsi con una lucidità che non ha subito scosse.

I suoi versi sono concisi, mancano di scorrevolezza, cosa che ha sempre combattuto per sbarrare la via alla comprensione immediata, spesso vi unisce una tematica scandalosa. Per rendere lo stato umorale intimo della sensazione originale insieme al pensiero analitico che lo rende oggettivo, usa l’eccesso della forma che garantisce l’eccesso dell’emozione. Ricorre alla mistificazione come travestimento per spacciarsi per ciò che non è nella vita reale (finto ateo, finta spia, finto omosessuale) che diventa una “protezione” nella forma poetica.

Spleen di Parigi sono la raccolta dei poemi in prosa meno ingabbiati e più liberi rispetto ai Fleurs, sono la fase degli esperimenti per allargare il campo espressivo. Imitazione della poesia nella prosa, riflettono il vagabondaggio per le vie della grande città mimando il vagabondaggio della prosa nei territori più oscuri dell’espressione. Le immagini che animano lo Spleen di Parigi sono lo sfacelo e la rovina, dove il tragico si avvia a essere letto come farsa.

La Fanfarlo è una racconto comico. Samuel Cramer è un personaggio mai sfiorato dalla consapevolezza di essere ridicolo. Si crede un poeta e quando parla non lo fa per comunicare qualcosa ma solo per divagazioni narcisistiche. È un insopportabile appassionato tutto istinto e senza senso critico, è la rappresentazione dell’eclettico, di colui che s’interessa a mille cose e non ne approfondisce una, una “scimmia del sentimentalismo” mezzecalza e pessimo artista. La storia lo vede riallacciare un rapporto con una conoscente d’infanzia che gli confida le pene del suo matrimonio da quando il marito la trascura per un’attrice, la Fanfarlo. Cramer le promette di strappare la cortigiana dalle braccia del monsieur sperando di ottenere in cambio le grazie dell’onesta signora. Il suo piano riuscirà solo in parte perché la signora non gli darà niente, anzi abbandonerà Parigi per la provincia e lui si ritroverà con l’attrice sulle spalle che ingrassa lo cornifica e lo spinge al successo sociale non più con la poesia ma con i trattatelli per diventare una celebrità ufficiale.

Constantin Guys autore di litografie molto amato da Baudelaire.

Del vino e dell’hascish ovvero il problema dei mezzi per la moltiplicazione dell’individualità. Come disciplinare la volontà e come mantenersi in stato di agitazione indispensabile alla creazione artistica? Lo stato di ubriachezza è un mezzo mnemonico alla stregua di un quaderno di appunti dove il poeta sprofonda nella memoria e in più l’ebbrezza scardina la censura, permette di mettersi in contatto con quelle visioni già possedute ma che si rifiutavano di ritornare come atto volontario. “Cadrò nel fondo al tuo petto come un’ambrosia vegetale. Sarò grano che rende fertile il solco dolorosamente scavato. La nostra intima riunione creerà la poesia. Di noi due faremo un Dio e volteggeremo verso l’infinito, come gli uccelli, le farfalle, i Fili di Vergine dei campi, i profumi e tutte le cose alate”. “Questo è il culmine del sublime ma non abbiamo perduto completamente di vista la riva del dolore, non siamo ancora nel mare aperto della fantasticheria, lì c’è il supersublime”. La ricerca di un metodo per procurarsi gli stati propizi lo porta a sperimentare le droghe che si rivelano non adatte allo scopo. L’hascish ingenerava fantasticherie fini a se stesse che scimmiottavano gli stati artistici. Il suo rifiuto non era quindi morale, era rifiuto di un’imitazione banale, da borghese odioso che s’illude di essere libero. Realizza un libero adattamento delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincy, dove lo splendore delle visioni provocate dall’oppio si contrappone al dolore che l’uso prolungato causava. Il contenuto risulta una descrizione quasi didattica e ciò è la dimostrazione che solo l’arte può dare forma credibile ai fantasmi. “De Quincy afferma che l’oppio anziché addormentare l’individuo lo eccita, ma lo eccita solo nella sua vita naturale e che in questo modo, per giudicare le meraviglie dell’oppio sarebbe assurdo riferirsi a un mercante di buoi perché costui sognerà solo pascoli e buoi, l’oppio non rivela all’individuo nient’altro che l’individuo stesso”.

Il Saggio su Wagner e sul Tannhauser nasce da una immedesimazione emozionale. Baudelaire costruisce la sua idea di Wagner sulle proprie emozioni da dilettante all’ascolto della musica. Dichiara che le sue uniche passioni fino a quel momento sono state per Weber e Beethoven, la fulminazione per il Tannhauser la descrive come una sensazione di qualcosa di già sentito, un’identificazione che lo porta a considerarla come scritta da lui stesso, per questo la può interpretare, perché gli somiglia. Ma come affrontare la critica oggettiva se non si riescono a perdere i godimenti dati dalle impressioni soggettive? Risponde che è la sensazione personale con lo chock a risvegliare l’attenzione. Il suo metodo critico è proprio nel travaso da ciò che è particolarmente individuale a ciò che deve essere oggettivamente evidente. Il poeta deve generare il critico che fonda sull’impressione, solo chi vive l’opera dentro il suo animo può averne conoscenza, una critica esterna risulterebbe falsa o inesatta. “Io mi rammento che fin dalle prime battute subii una di quelle impressioni felici che quasi tutti gli uomini immaginativi hanno conosciuto attraverso il sogno. Mi sentii liberato dai legami della gravità e trovai attraverso il ricordo la straordinaria voluttà che circola nei luoghi elevati. In seguito mi dipinsi involontariamente lo stato delizioso di un uomo in preda a una grandiosa fantasticheria in una solitudine assoluta ma con un immenso orizzonte e un’ampia luce diffusa, l’immensità senza altro sfondo che se stessa”. La poesia è inscritta nel corpo come una reminiscenza da ritrovare e uno chock imprevisto e involontario poteva portare al suo ritrovamento. “Tengo solamente a far osservare, a gran lode di Wagner, che l’ouverture del Tannhauser è perfettamente intelleggibile anche da colui che non conosce il libretto, che questa ouverture contiene non solo l’idea madre, la dualità psichica che contiene il dramma, ma anche le formule principali, nettamente accentrate, destinate a dipingere i sentimenti generali espressi nel seguito dell’opera”.

Diversi saggi sono dedicati alla letteratura dove stronca ed elogia. Tra gli autori ammirati ci sono i classici antichi, Dante, Shakespeare, poi Balzac, Hoffmann, Flaubert cui dedica un’acuta lettura di Madame Bovary, Victor Hugo, Theofile Gauthier. Per il saggio su E.A.Poe si servì delle descrizioni fatte da Poe stesso nel racconto William Wilson per ricostruire il Poe fanciullo, dando per certo che il racconto dovesse rivelare l’autore arrivando a una sua minuziosa descrizione fisiognomica, successivamente ogni opera fu interpretata alla luce già definita del ritratto: i personaggi sono Poe, le donne che muoiono di mali bizzarri sono lui stesso e l’ardore con cui si tuffa nel grottesco e nell’orribile per amore del grottesco e dell’orribile servono a verificare la sincerità della sua opera e l’accordo tra l’uomo e il poeta. Ardore non dichiarato dall’artista stesso ma cifra stilistica che Baudelaire aveva estratto dall’opera di Poe. Considerava il suo stile puro e sempre corretto, rispettoso delle regole, notevole per un uomo con un’immaginazione così errabonda. Come poeta rappresentava da solo il movimento romantico negli Stati Uniti. La sua poesia profonda e dolorosa insieme ai racconti dove lavora sull’orribile, denotano il sintomo di un’energia vitale non utilizzata, forse a causa di una sensibilità repressa. Contento di non trovarci storie d’amore che considera un successo contro la trivialità, ammette di non provare vergogna nel preferirlo a Goethe: ” Ha saputo raccontare le eccezioni della vita umana e della natura, l’allucinazione e il dubbio, l’assurdo e l’isteria, l’imponderabile e l’immaginario, letteratura dove si prova angoscia e paura ma dove l’uomo lancia una sfida alle difficoltà. L’ immaginazione non è fantasia ma una facoltà quasi divina che intuisce i rapporti minimi tra le cose”. Lo considera vittima di scalogna, vera dannazione che lo frusta senza risparmio, come se la Provvidenza diabolica gli avesse preparato la sventura dalla culla e gli Stati Uniti, barbarie illuminata dal gas, non furono per Poe che una vasta prigione che percorreva da poeta e da ubriaco con uno sforzo estremo per sfuggire a quell’atmosfera ostile. La sua vita e i suoi modi tenebrosi e brillanti insieme, fanno di lui una persona singolare e seducente, con le sue opere marchiate di malinconia è facile supporre che solitario, infelice, tormentato da un destino impietoso, dolori familiari, abbia voluto fuggire nell’ebbrezza come in una tomba preparatoria. Baudelaire pur quanto buona non considera comprensibile questa giustificazione. Ci vede invece un metodo per eccitare o per tranquillizzare le fasi per concatenare sogni e ragionamenti che hanno bisogno dell’ambiente originale per riprodursi. Un mezzo mnemonico, un metodo di lavoro, per ritrovare le visioni meravigliose o spaventose che aveva incontrato in un tempo precedente e che per riviverle prendeva il cammino più pericoloso e più diretto. Come dire che il nostro godimento è ciò che lo ha ucciso.

Nelle Riflessioni su alcuni miei contemporanei, progetto antologico legato alla scelta di una serie di poesie e di profili, alcuni feroci altri di ammirazione, spicca quello su Victor Hugo che considera artista universale, il cui verso traduce per l’animo umano non solo i piaceri più diretti che trae dalla natura più visibile, ma anche le sensazioni più fuggitive, più complesse, più morali che ci vengono trasmesse dalla natura inanimata. Versi musicali dell’uomo più dotato ad esprimere il mistero della vita con un dizionario colorato, melodioso e nobile, immenso e minuzioso, calmo e agitato. Parole di apprezzamento sono riferite anche a Theofile Gauthier che dice di ammirare fino a provare imbarazzo. Per definire la sua bonomia lo definisce “asiatico o orientale”, per indicare un genere di umore allo stesso tempo semplice, pieno di dignità e morbido. “Gauthier è uno scrittore nuovo e unico, il suo stile gode di quella conoscenza della lingua che non fa mai difetto di quel sentimento dell’ordine che mette ogni tocco al suo posto naturale senza omettere sfumature, unite a una intelligenza innata del simbolismo e della corrispondenza del repertorio delle metafore. Nella sua parola c’è qualcosa di sacro, nello stile un’esattezza che rapisce, da gioco matematico”.

In una lettera a Felix Nadar del 1859 Baudelaire confessava di dover scrivere sul Salon senza averlo visitato ma di cui possedeva il catalogo, modo che considerava eccellente a condizione di avere “son personnel”. Giudicare un’esposizione di quadri gli era consentita dall’amore viscerale per le immagini legate al linguaggio del sogno, lingua originaria della pittura e della poesia. Per lui un quadro doveva essere fedele e pari al sogno che lo genera e tradotto dall’artista in modo rigoroso. Dando per scontata la padronanza dei mezzi, il critico deve porsi in relazione all’elemento che aveva generato l’opera, ecco allora la metafora del volgere le spalle per vedere meglio seguendo il consiglio di Leonardo, osservare a lungo le macchie e le crepe di un muro fino a evocare volti e cose in esse contenute. Poteva ricorrere a questo metodo solo chi possedeva bene se stesso (il son personnel), colui che aveva fatto del suo corpo un sismografo sensibile a qualsiasi variazione estetica e la critica era personale nel senso più letterale possibile. Bisogna attingere a uno stato precedente la conoscenza, quello dell’infanzia, che ha bevuto con lo sguardo ma anche con la pelle e le papille le immagini. I sensi echeggiano l’uno nell’altro scoprendo le analogie per rivivere il ricordo di una vita anteriore. Baudelaire parlava esplicitamente di emozione estetica come eccitazione sessuale, ogni pensiero sublime si accompagna ad una scossa nervosa. Considerava il sistema della descrizione il modo più sicuro per non vedere, per l’irrigidimento causato dalla fissità dell’attenzione e per vedere ciò che già tutti avevano visto. Si tratta invece di far coincidere l’elemento emotivo e di sogno della pittura con un altro elemento altrettanto creativo, un sonetto o un’elegia, ma una tale critica è possibile solo a un poeta e ai suoi lettori. La critica propriamente detta deve essere condotta da un punto di vista esclusivo che sappia vedere realmente il bello che è eterno ma anche relativo, determinato dall’epoca, le mode, la morale. Essere capaci di decifrare i segni con sguardo “ingenuo” è la visione esatta.

Considera la scultura parziale e miope con troppe facce in una volta, “troppo umiliante per l’artista se un lampo di luce rivela una bellezza diversa da quella pensata”. Vista da vicino non manca di minuzie quindi di inezie.

Anche sulla fotografia non è positivo. Credere che l’arte sia la riproduzione fedele della natura porta a credere che l’industria capace di dare un risultato identico alla natura sarebbe l’arte assoluta. La fotografia dà tutte le garanzie di esattezza, quindi l’arte potrebbe essere la fotografia? In realtà si tratta di un mezzo per diffondere un doppio sacrilegio: allontanare dalla storia della pittura e offendere la pittura e l’arte dell’attore. “L’irruzione nell’arte del fatuo è la confusione delle funzioni, poesia e progresso si odiano. Se si permette che la fotografia supplisca l’arte la corromperà presto, che si limiti ad arricchire l’album del viaggiatore, che serva la scienza e chiunque abbia bisogno di un’esattezza materiale, che salvi dalla dimenticanza ciò che cade in rovina ma che non le sia concesso di sconfinare nella sfera dell’immaginario o dove l’uomo infonde la sua anima”. (Siamo nel 1859 tra 36 anni nascerà il cinema!)

Tornando alla pittura, i suoi massimi sono Ingres e Delacroix . Trova che Ingres disegna meglio di Raffaello e considera i suoi ritratti di una grandezza assoluta, poemi interiori. Ingres ritiene che la natura debba essere corretta con inganni per rendere felici gli occhi, ecco delle figure delicate con spalle eleganti congiunte a braccia troppo robuste, troppo piene di carnalità e un ombelico spostato verso i fianchi e un seno puntato più del dovuto verso l’ascella. L’idea è che Ingres non abbia cercato la natura ma subito inseguito la spinta dello stile per sopprimere il modellato assottigliandolo, con la speranza di dare più valore al contorno e rendere la materia qualcosa di estranea all’organismo umano. “È Delacroix il solo artista la cui originalità non sia sopraffatta dal sistema delle linee rette, con i suoi personaggi sempre mossi e i suoi panneggi impennanti”. La linea non esiste esistono diversi disegni e diversi colori, il disegno è creativo è privilegio del genio che esprime la verità del movimento. “La semplificazione del disegno è una mostruosità perché la natura presenta una serie infinita di linee curve, spezzate e sfuggenti”. Nei suoi quadri ha trattato tutto l’universo pittorico, i quadri di genere sono pervasi d’interiorità mentre le scene storiche sono piene di grandezza, i quadri religiosi non sono né pedanti né mistici, posseggono la severa tristezza del dolore universale che lascia all’individuo la libertà di celebrarla se questi conosce la sofferenza. Delacroix è espressione del progresso nell’arte, erede della tradizione, del fasto della composizione, più dei vecchi maestri possiede l’arte di manovrare il dolore, la passione, il gesto. Andasse perduto il patrimonio degli antichi, in lui si troverà un equivalente. Delacroix è il pittore prediletto dei poeti perché ha percorso la grande letteratura da Dante a Byron a Shakespeare.

Il saggismo allo stato puro è un suo modo di procedere apparentemente casuale, la scrittura segue un’idea e poi quella opposta senza fissarsi su nessuna. Raccoglieva materiali e poi li trasformava con una tecnica prossima alla variazione musicale. Saggi eccentrici per continuo divagare dove tutti i temi venivano toccati e abbandonati. Scelta di massime consolanti sull’amore “Se comincio dall’amore è perché l’amore è per tutti, -hanno un bel negarlo-, la gran cosa della vita! Regola sommaria e generale: in amore guardatevi dalla luna e dalle stelle, guardatevi dalla Venere di Milo, dai laghi, dalle chitarre, dalle scale di corda e da tutti i romanzi; – dal più bello del mondo, – fosse pure scritto da Apollo in persona!”. Sul bello il vero il giusto. “La celebre dottrina dell’indissolubilità del Bello Vero Giusto è un’invenzione della filosofia moderna. …. A volte un oggetto ne reclama una sola, a volte tutte……. bisogna osservare che più un oggetto reclama delle facoltà, meno esso è nobile e puro, e più è complesso, più ha in sé qualcosa di bastardo. Il Vero serve da scopo per le scienze, esso invoca soprattutto l’intelletto puro. La purezza di stile è la benvenuta, ma la Bellezza dello stile può essere considerata come un elemento di lusso. Il Bene è il fondamento e il fine delle ricerche morali ed è anche fine esclusivo del gusto. …… Il Vero è il fine della storia e il romanzo è uno di quei generi complessi in cui può essere dato spazio a una parte più o meno grandiosa di vero e di bello…… C’è un’altra eresia, quella dell’insegnamento e dei suoi corollari, la verità e la morale. Una fetta di persone si figura che il fine della poesia sia un insegnamento che debba fortificare la coscienza, perfezionare i costumi o dimostrare qualcosa di utile….La poesia non ha altro fine che se stessa, interrogare la propria anima, richiamare ricordi…..scritta unicamente per il piacere di scrivere una poesia….tutto ciò che fa la grazia, l’irresistibilità di una canzone, toglierebbe alla verità la sua autorità. …È uno dei prodigi dell’arte che l’orribile, espresso artisticamente, divenga bellezza, e che il dolore ritmato e cadenzato riempia lo spirito di una gioia calma”. Nella Morale del giocattolo c’è invece il suo tocco inconfondibile, si accosta al gioco e l’artista attraverso un ricordo d’infanzia, quando insieme alla madre era andato a trovare un’amica di famiglia che per ringraziarlo della visita lo accompagna in una stanza della casa strapiena di giocattoli e facendogli scegliere quello che vuole. Di fronte al rifiuto di sua madre che gli aveva vietato di prendere il giocattolo più bello per accontentarsi di una banale via di mezzo, partono le sue idee sul gioco. Il gioco è un lusso dell’immaginazione, attraverso la manipolazione, la distruzione del giocattolo, il bambino impara a godere delle forme e a cercare oltre esse l’anima delle cose. Baudelaire rifiuta il gioco che imita la vita senza fantasia, deve sostituirsi con la sua magia al mondo alienato nella ripetizione.

Fusées (razzi botti) e di botti ce ne sono, come la divinizzazione della prostituzione, la difesa della crudeltà e del sadismo in amore, la preghiera come operazione magica, la descrizione della fine del mondo. Il senso era quello di produrre uno chock estetico, da dandy impassibile e senza convinzioni. Malgrado questo pensa contemporaneamente alle sue Confessioni. Il mio cuore messo a nudo è il titolo che gli è venuto da E.A. Poe. Il dandy doveva dire tutto in sincerità assoluta, preferendo stupire invece che piacere, la verità restando indifferente. Scriveva a sua madre che lo considerava un libro di rancori e di vendette, raccontando la sua educazione e il modo in cui si sono formate le sue idee, voleva spiegare come si sentisse estraneo al mondo e alle idee di progresso perché era ossessionato che il mondo fosse preda del male e che niente sarebbe cambiato. Malgrado questo si sentiva anche in dovere di giustificare l’assetto presente di quella stessa società contro cui scatenava il suo odio. “Amiamo le donne nella misura in cui ci sono più estranee. Amare le donne intelligenti è un piacere da pederasta.” “Dio è uno scandalo, uno scandalo che rende.” ” Non disprezzare la sensibilità di nessuno, la sensibilità è il suo genio”. “La Rivoluzione, attraverso il sacrificio, ribadisce la superstizione “. ” C’è una vigliaccheria o piuttosto una certa mollezza nelle persone oneste”. “La credenza del Progresso è una dottrina da pigri, una dottrina da belgi. È l’individuo che fa conto sul suo vicino per sbrigare il suo lavoro”.

Il bambino-artista getta ingiurie in faccia al suo nemico, a quelle persone ultraragionevoli, gli stessi che facevano l’elemosina ai poveri solo a condizione che questi non usassero i soldi per ubriacarsi liberamente, ma per comprarsi il pane con cui strozzare ogni sogno ribelle. Il gesto della pietà borghese che è l’oggetto della carità, fatto da persone che non sanno cosa sia l’amore e che hanno sostituito al principio di piacere il principio di dovere.

Senza categoria

Marina Čvetaeva – Il racconto di Sonečka

Volodja sapete perché esistono i poeti? Per non vergognarsi di dire – le cose più grandi: E sempre conserveranno le mie vie – Il tuo sigillo

Marina Čvetaeva viveva a Parigi lontana dalla Russia da quindici anni, quell’anno, il 1937, sua figlia Arjadna (Alja) decide di tornarci. Marina le chiede di cercare notizie di Sofja Evgen’vena Gollidej, l’attrice che aveva conosciuto nel 1919 quando frequentava il Teatro Studio, laboratorio sperimentale del Teatro d’Arte di Mosca diretto da Eugenij Vachtangov, dove leggeva i suoi testi teatrali. Le notizie che Alja invia alla madre furono quelle riguardanti la morte di Sofja, avvenuta due anni prima a causa di un cancro. Nell’estate del 1937 a Marina non rimane che ripensarla e rivivere quell’incontro attraverso la scrittura. Raccontare come la vedeva, lei e le altre persone che aveva conosciuto, mescolando le descrizioni con le sensazioni, le situazioni con i dialoghi, alcuni solo immaginati, alternando il discorso diretto allo stile epistolare, mescolando monologhi con dialoghi, lettere a poesie. Usando molte esclamazioni e il trattino che invece di unire sembra spezzare le frasi e forse il senso, magari per aprire ad altre percezioni. Era stato il poeta Pavel Antokol’skij, anche lui attore presso lo Studio, con i versi a lei dedicati ad attirare la sua attenzione verso Sofja. Dopo aver ricordato il momento dell’incontro seguono pagine e pagine di descrizione di lei. Tutta la città la conosceva per la sua interpretazione nelle “Notti bianche” e per tutti era “la piccola”, che meraviglia “così piccola…” Marina riconosce le trecce nere e lo sguardo, le guance in fiamme e i grandi occhi neri dell’Infanta della poesia di Pavlik. Descrive il suo ridere prossimo alle lacrime e le lacrime prossime al riso, lacrime calde e rotonde come perle, salate come il mare, che mentre le piangeva si sarebbe detto che lo faceva come una musica di Mozart. Parla dei suoi occhi un po’ socchiusi per troppe ciglia, sembrava che le impedissero di guardare, ma altrettanto impedivano di guardarle gli occhi, come i raggi impediscono di guardare la stella. Riferisce del suo modo di parlare in maniera inarrestabile con un linguaggio carico di diminutivi, il filino… l’attimino…. manierina. Del suo essere capricciosa, caparbia, irrazionale e possessiva, ingiustificabilmente ostile verso chi era ben disposto nei suoi confronti. Descrive la casa dove viveva, il baule giallo che conteneva il suo corredo, la poltrona verde dove sprofondava, circondata, accerchiata e abbracciata come nel verde cespuglio di un bosco. Da adesso Sonečka sarà solo sua come i suoi anelli e i suoi bracciali d’argento, incontestabilmente suoi, come un regalo che non serve a nessuno se non a lei.

Sofja Gollidej (Sonečka )

“Sonečka vorrei che dopo il mio racconto si innamorassero di te tutti gli uomini, che diventassero gelose di te – tutte le mogli – che sospirassero per te – tutti i poeti.”

Benché parli di innamoramento non ci sono tratti di sensualità, è più una travolgente infatuazione senza concretezza, senza fatti, “perché i fatti non provano ancora niente, ma la parola è tutto”. Parole che a Marina suoneranno anche buffe ma che lascerà correre perché erano di “autentica” dolcezza.

Marina Čvetaeva

La storia di Sonečka e di tutti gli altri importanti personaggi del racconto finì improvvisamente. Sonečka partì e quando tornò non cercò mai di rivedere Marina in quei pochi anni prima del suo esilio. Marina fece altrettanto, consapevole di doverla lasciare andare verso il suo destino di donna, senza frapporsi tra lei e qualcun altro. Nell’estate del 1937 Marina venuta a conoscenza della sua morte fa rivivere la sua anima per farla durare oltre il tempo.

“E adesso – addio Sonečka! E sii tu benedetta per il minuto di beatitudine e di felicità che hai donato a un altro cuore , solitario, riconoscente! Dio mio! Un intero minuto di beatitudine! Forse che è poco anche per un’intera vita umana….?”